14 novembre 2015 – Sbucano i bambini invisibili – Sesta puntata

E’ difficile scrivere dopo le stragi di Parigi ma voglio continuare perché anche il silenzio può essere devastante.

Dopo il mio commento inserisco i passi della relazione finale del Sinodo dei vescovi, tratti dal sito ufficiale, per chi volesse leggerne l’intero testo

Sbucano? Non al Sinodo della famiglia a loro negata

Comincio dal punto 5 del primo capitolo della prima parte che contiene una citazione della Costituzione Pastorale Gaudium et Spes (7 dicembre 1965) del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Trascrivo quella citazione in un testo un po’ più ampio di quello citato nel testo sinodale perché ci tengo a segnalare che si riferisce alla teologia dei ‘segni dei tempi’ “Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.” Aggiungo una citazione dal discorso tenuto dal papa nel duomo di Firenze, in apertura del V Convegno Nazionale della chiesa italiana. “I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”.
Quindi se il Concilio ha finalmente sdoganato i segni dei tempi da una storica visione negativa, e se i credenti sono riconosciuti  cittadini, posso (e a mio parere devo) prendere in considerazione la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (la legge italiana 176/1991 traduce con uno zuccheroso ‘fanciullo’ che mi irrita) che all’art. 3 recita «In tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente». e all’art. 7 precisa «Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi».

Ho cercato e non ho trovato, ho bussato e non mi è stato aperto

Dal punto 12 del cap II della parte prima «La famiglia merita una speciale attenzione da parte dei responsabili del bene comune, perché è la cellula fondamentale della società, che apporta legami solidi di unione sui quali si basa la convivenza umana e, con la generazione e l’educazione dei suoi figli, assicura il rinnovamento e il futuro della società» (Francesco, Discorso all’Aeroporto di El Alto in Bolivia, 8 luglio 2015).

Dal punto 23 del cap III della parte prima-  «Le migrazioni appaiono particolarmente drammatiche e devastanti per le famiglie e per gli individui quando hanno luogo al di fuori della legalità e sono sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani. Lo stesso può dirsi quando riguardano donne o bambini non accompagnati, costretti a soggiorni prolungati nei luoghi di passaggio, nei campi profughi, dove è impossibile avviare un percorso di integrazione. La povertà estrema e altre situazioni di disgregazione inducono talvolta le famiglie perfino a vendere i propri figli per la prostituzione o per il traffico di organi».
Dal punto 24 del cap. III della parte prima
«Una risorsa preziosa per il superamento di queste difficoltà si rivela proprio l’incontro tra famiglie, e un ruolo chiave nei processi di integrazione è svolto spesso dalle donne, attraverso la condivisione dell’esperienza di crescita dei propri figli»

Sempre dal cap. III della  parte  prima
26     I bambini   «I diritti dei bambini sono trascurati in molti modi. In alcune aree del mondo, essi sono considerati una vera e propria merce, trattati come lavoratori a basso prezzo, usati per fare la guerra, oggetto di ogni tipo di violenza fisica e psicologica. Bambini migranti vengono esposti a vari tipi di sofferenza. Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Nelle società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, sono in crescita situazioni familiari degradate. Nelle grandi metropoli e nelle loro periferie si aggrava drammaticamente il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada».

I padri senza un ruolo giuridicamente riconosciuto come possono proteggere i loro non figli?
28 «L’uomo riveste un ruolo egualmente decisivo nella vita della famiglia, con particolare riferimento alla protezione e al sostegno della sposa e dei figli».

Non commento scrivo solo una domanda che per me riassume le altre che vorrei elencare ma che ognuno troverà da sé:
Perché la famiglia così valorizzata nel caso dei figli dei migranti senza permesso di soggiorno invece non ha rilevanza e può essere loro negata per legge nella indifferenza laico-clericale?

La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (cui come cittadini cristiani e non dovremmo far riferimento) dice
art. 2 «1. Gli Stati parti si impegnano a rispettare i diritti enunciati nella presente Convenzione e a garantirli a ogni fanciullo che dipende dalla loro giurisdizione, senza distinzione di sorta e a prescindere da ogni considerazione di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o altra del fanciullo o dei suoi genitori o rappresentanti legali, dalla loro origine nazionale, etnica o sociale, dalla loro situazione finanziaria, dalla loro incapacità, dalla loro nascita o da ogni altra circostanza;
Gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati affinché il fanciullo sia effettivamente tutelato contro ogni forma di discriminazione o di sanzione motivate dalla condizione sociale, dalle attività, opinioni professate o convinzioni dei suoi genitori, dei suoi rappresentanti legali o dei suoi familiari».

Testi completi dei capitoli citati con indicazione della fonte

https://press.vatican.va/content/salastampa/en/bollettino/pubblico/2015/10/24/0816/01825.html

Synod15 – Relazione Finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco (24 ottobre 2015), 24.10.2015

[B0816]

Pubblichiamo di seguito il testo della Relazione finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco, al termine della XIV Assemblea generale ordinaria (4-25 ottobre 2015) sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”.

Parte I- –   La famiglia e il contesto antropologico- culturale

Cap. I   –  Il contesto socio-culturale 5. Docili a ciò che lo Spirito Santo ci chiede, ci avviciniamo alle famiglie di oggi nella loro diversità, sapendo che «Cristo, il nuovo Adamo […] rivela pienamente l’uomo a se stesso» (GS, 22).Volgiamo la nostra attenzione alle sfide contemporanee che influiscono su molteplici aspetti della vita. Siamo consapevoli dell’orientamento principale dei cambiamenti antropologico-culturali, in ragione dei quali gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali nella loro vita affettiva e familiare. D’altra parte, bisogna egualmente considerare gli sviluppi di un individualismo esasperato che snatura i legami familiari, facendo prevalere l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri, togliendo forza ad ogni legame. Pensiamo alle madri e ai padri, ai nonni, ai fratelli e alle sorelle, ai parenti prossimi e lontani, e al legame tra due famiglie che tesse ogni matrimonio. Non dobbiamo tuttavia dimenticare la realtà vissuta: la solidità dei legami familiari continua ovunque a tenere in vita il mondo. Rimane grande la dedizione alla cura della dignità di ogni persona – uomo, donna e bambini –, dei gruppi etnici e delle minoranze, così come alla difesa dei diritti di ogni essere umano di crescere in una famiglia. La loro fedeltà non è onorata se non si riafferma una chiara convinzione del valore della vita familiare, in particolare facendo affidamento alla luce del Vangelo anche nelle diverse culture. Siamo consapevoli dei forti cambiamenti che il mutamento antropologico culturale in atto determina in tutti gli aspetti della vita, e rimaniamo fermamente persuasi che la famiglia sia dono di Dio, il luogo in cui Egli rivela la potenza della sua grazia salvifica. Anche oggi il Signore chiama l’uomo e la donna al matrimonio, li accompagna nella loro vita familiare e si offre ad essi come dono ineffabile; è uno dei segni dei tempi che la Chiesa è chiamata a scrutare e interpretare «alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico» (GS, 4). 5     –   placet 256 Non placet 3

Cap II   —  La famiglia e il contesto socio-economico

  1. Politiche in favore della famiglia  Le autorità responsabili del bene comune debbono sentirsi seriamente impegnate nei confronti di questo bene sociale primario che è la famiglia. La preoccupazione che deve guidare l’amministrazione della società civile è quella di permettere e promuovere politiche familiari che sostengano e incoraggino le famiglie, in primo luogo quelle più disagiate. È necessario riconoscere più concretamente l’azione compensativa della famiglia nel contesto dei moderni “sistemi di welfare”: essa ridistribuisce risorse e svolge compiti indispensabili al bene comune, contribuendo a riequilibrare gli effetti negativi della disequità sociale. «La famiglia merita una speciale attenzione da parte dei responsabili del bene comune, perché è la cellula fondamentale della società, che apporta legami solidi di unione sui quali si basa la convivenza umana e, con la generazione e l’educazione dei suoi figli, assicura il rinnovamento e il futuro della società» (Francesco, Discorso all’Aeroporto di El Alto in Bolivia, 8 luglio 2015). 12 placet 253 Non placet 5

Cap III  –  Famiglia, inclusione e società

Migranti,  profughi, perseguitati       23. Merita particolare attenzione pastorale l’effetto del fenomeno migratorio sulla famiglia. Esso tocca, con modalità differenti, intere popolazioni, in diverse parti del mondo. La Chiesa ha esercitato in questo campo un ruolo di primo piano. La necessità di mantenere e sviluppare questa testimonianza evangelica (cf. Mt 25,35) appare oggi più che mai urgente. La storia dell’umanità è una storia di migranti: questa verità è inscritta nella vita dei popoli e delle famiglie. Anche la nostra fede lo ribadisce: siamo tutti dei pellegrini. Questa convinzione deve suscitare in noi comprensione, apertura e responsabilità davanti alla sfida della migrazione, tanto di quella vissuta con sofferenza, quanto di quella pensata come opportunità per la vita. La mobilità umana, che corrisponde al naturale movimento storico dei popoli, può rivelarsi un’autentica ricchezza tanto per la famiglia che emigra quanto per il paese che la accoglie. Altra cosa è la migrazione forzata delle famiglie, frutto di situazioni di guerra, di persecuzione, di povertà, di ingiustizia, segnata dalle peripezie di un viaggio che mette spesso in pericolo la vita, traumatizza le persone e destabilizza le famiglie. L’accompagnamento dei migranti esige una pastorale specifica rivolta alle famiglie in migrazione, ma anche ai membri dei nuclei familiari rimasti nei luoghi d’origine. Ciò deve essere attuato nel rispetto delle loro culture, della formazione religiosa ed umana da cui provengono, della ricchezza spirituale dei loro riti e tradizioni, anche mediante una cura pastorale specifica. «È importante guardare ai migranti non soltanto in base alla loro condizione di regolarità o di irregolarità, ma soprattutto come persone che, tutelate nella loro dignità, possono contribuire al benessere e al progresso di tutti, in particolar modo quando assumono responsabilmente dei doveri nei confronti di chi li accoglie, rispettando con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del Paese che li ospita, obbedendo alle sue leggi e contribuendo ai suoi oneri» (Francesco, Messaggio per la Giornata mondiale dei migranti e del rifugiato 2016, 12 settembre 2015). Le migrazioni appaiono particolarmente drammatiche e devastanti per le famiglie e per gli individui quando hanno luogo al di fuori della legalità e sono sostenute da circuiti internazionali di tratta degli esseri umani. Lo stesso può dirsi quando riguardano donne o bambini non accompagnati, costretti a soggiorni prolungati nei luoghi di passaggio, nei campi profughi, dove è impossibile avviare un percorso di integrazione. La povertà estrema e altre situazioni di disgregazione inducono talvolta le famiglie perfino a vendere i propri figli per la prostituzione o per il traffico di organi. 23 placet 253  Non placet 4

  1. L’incontro con un nuovo paese e una nuova cultura è reso tanto più difficile quando non vi siano condizioni di autentica accoglienza e accettazione, nel rispetto dei diritti di tutti e di una convivenza pacifica e solidale. Questo compito interpella direttamente la comunità cristiana: «la responsabilità di offrire accoglienza, solidarietà e assistenza ai rifugiati è innanzitutto della Chiesa locale. Essa è chiamata ad incarnare le esigenze del Vangelo andando incontro, senza distinzioni, a queste persone nel momento del bi­sogno e della solitudine» (Pontificio Consiglio Cor Unum e Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti, I Rifugiati, una sfida alla solidarietà, 26). Il senso di spaesamento, la nostalgia delle origini perdute e le difficoltà di integrazione mostrano oggi, in molti contesti, di non essere superati e svelano sofferenze nuove anche nella seconda e terza generazione di famiglie migranti, alimentando fenomeni di fondamentalismo e di rigetto violento da parte della cultura ospitante. Una risorsa preziosa per il superamento di queste difficoltà si rivela proprio l’incontro tra famiglie, e un ruolo chiave nei processi di integrazione è svolto spesso dalle donne, attraverso la condivisione dell’esperienza di crescita dei propri figli. In effetti, anche nella loro situazione di precarietà, esse danno testimonianza di una cultura dell’amore familiare che incoraggia le altre famiglie ad accogliere e custodire la vita, praticando la solidarietà. Le donne possono trasmettere alle nuove generazioni la fede viva nel Cristo, che le ha sostenute nella difficile esperienza della migrazione e ne è stata rafforzata. Le persecuzioni dei cristiani, come anche quelle di minoranze etniche e religiose, in diverse parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, rappresentano una grande prova: non solo per la Chiesa, ma anche per l’intera comunità internazionale. Ogni sforzo va sostenuto per favorire la permanenza di famiglie e comunità cristiane nelle loro terre di origine. Benedetto XVI ha affermato: «Un Medio Oriente senza o con pochi cristiani non è più il Medio Oriente, giacché i cristiani partecipano con gli altri credenti all’identità così particolare della regione» (Esortazione Apostolica Ecclesia in Medio Oriente, 31). 24 – placet 255 Non placet 5

26   –   I bambini    –   I bambini sono una benedizione di Dio (cf. Gn 4,1). Essi devono essere al primo posto nella vita familiare e sociale, e costituire una priorità nell’azione pastorale della Chiesa. «In effetti, da come sono trattati i bambini si può giudicare la società, ma non solo moralmente, anche sociologicamente, se è una società libera o una società schiava di interessi internazionali.[…] I bambini ci ricordano […] che siamo sempre figli […].E questo ci riporta sempre al fatto che la vita non ce la siamo data noi ma l’abbiamo ricevuta» (Francesco, Udienza generale, 18 marzo 2015). Tuttavia, spesso i bambini diventano oggetto di contesa tra i genitori e sono le vere vittime delle lacerazioni familiari. I diritti dei bambini sono trascurati in molti modi. In alcune aree del mondo, essi sono considerati una vera e propria merce, trattati come lavoratori a basso prezzo, usati per fare la guerra, oggetto di ogni tipo di violenza fisica e psicologica. Bambini migranti vengono esposti a vari tipi di sofferenza. Lo sfruttamento sessuale dell’infanzia costituisce poi una delle realtà più scandalose e perverse della società attuale. Nelle società attraversate dalla violenza a causa della guerra, del terrorismo o della presenza della criminalità organizzata, sono in crescita situazioni familiari degradate. Nelle grandi metropoli e nelle loro periferie si aggrava drammaticamente il cosiddetto fenomeno dei bambini di strada. 26 placet 256  non placet 2

28   –   L’uomo   –    L’uomo riveste un ruolo egualmente decisivo nella vita della famiglia, con particolare riferimento alla protezione e al sostegno della sposa e dei figli. Modello di questa figura è San Giuseppe, uomo giusto, il quale nell’ora del pericolo «prese con sé il bambino e sua madre nella notte» (Mt 2,14) e li portò in salvo. Molti uomini sono consapevoli dell’importanza del proprio ruolo nella famiglia e lo vivono con le qualità peculiari dell’indole maschile. L’assenza del padre segna gravemente la vita familiare, l’educazione dei figli e il loro inserimento nella società. La sua assenza può essere fisica, affettiva, cognitiva e spirituale. Questa carenza priva i figli di un modello adeguato del comportamento paterno. Il crescente impiego lavorativo della donna fuori casa non ha trovato adeguata compensazione in un maggior impegno dell’uomo nell’ambito domestico. Nel contesto odierno la sensibilità dell’uomo al compito di protezione della sposa e dei figli da ogni forma di violenza e di avvilimento si è indebolita. «Il marito – dice Paolo – deve amare la moglie “come il proprio corpo” (Ef 5,28); amarla come Cristo “ha amato la Chiesa e ha dato sé stesso per lei” (v. 25). Ma voi mariti […] capite questo? Amare la vostra moglie come Cristo ama la Chiesa? […] L’effetto di questo radicalismo della dedizione chiesta all’uomo, per l’amore e la dignità della donna, sull’esempio di Cristo, deve essere stato enorme, nella stessa comunità cristiana. Questo seme della novità evangelica, che ristabilisce l’originaria reciprocità della dedizione e del rispetto, è maturato lentamente nella storia, ma alla fine ha prevalso» (Francesco, Udienza Generale, 6 maggio 2015). 28 placet 257  non placet 4

II PARTE                      Cap IV   –  Verso la pienezza ecclesiale della famiglia

  1. Quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico – ed è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove – può essere vista come un’occasione da accompagnare verso il sacramento del matrimonio, laddove questo sia possibile. Differente invece è il caso in cui la convivenza non sia stabilita in vista di un possibile futuro matrimonio, ma nell’assenza del proposito di stabilire un rapporto istituzionale. La realtà dei matrimoni civili tra uomo e donna, dei matrimoni tradizionali e, fatte le debite differenze, anche delle convivenze, è un fenomeno emergente in molti Paesi. Inoltre, la situazione di fedeli che hanno stabilito una nuova unione richiede una speciale attenzione pastorale: «In questi decenni […] è molto cresciuta la consapevolezza che è necessaria una fraterna e attenta accoglienza, nell’amore e nella verità, verso i battezzati che hanno stabilito una nuova convivenza dopo il fallimento del matrimonio sacramentale; in effetti, queste persone non sono affatto scomunicate» (Francesco, Udienza generale, 5 agosto 2015). 54 placet 236 non placet 21

Votazioni dei singoli numeri della Relazione finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre Francesco  Padri presenti: 265  Due terzi: 177

14 Novembre 2015Permalink

8 novembre 2015 – Sbucano i bambini invisibili – Quinta puntata

Mia irrimediabile sprovvedutezza

Devo chiedere scusa a me stessa e alla mia irrimediabile sprovvedutezza per aver intitolato il pezzo del 29 scorso “Lo ius soli approda in parlamento e i figli dei sans papier non saranno cancellati”. Forse non sarà così. Io mi basavo sul fatto che la camera aveva approvato la proposta “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza” inserendo un articolo (art. 2, comma 3) che affermava non doversi presentare il permesso di soggiorno per dichiarare la nascita in Italia dei propri figli. Il deputato presente il 9 ottobre a Zugliano, on. Rosato, aveva detto che avrebbe sollecitato i colleghi del senato ad affermare la norma come stava perché non intervenissero modifiche che avrebbero implicato comunque un rinvio. E’ vero che il senato ha posto la norma all’attenzione della propria commissione Affari Costituzionali, la relatrice di maggioranza ha presentato la propria relazione ma poi tutto si è fermato, come si può constare da qui. http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/comm/46079_comm.htm

Approvata la legge 19 ottobre 2015, n. 173

Intanto però è accaduta un’altra cosa importante. La Camera dei Deputati nella seduta del 14 ottobre ha approvato definitivamente la legge che ho indicato nel titolo, che entrerà in vigore il 13 novembre Si tratta di “Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare” che si può leggere anche da qui  
http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2015/10/29/15G00187/sg

Riporto un articolo di Repubblica.it del 14 ottobre che mi sembra pertinente  

L’affido può diventare adozione: la continuità affettiva è legge

Approvazione definitiva alla Camera, con voto bipartisan, per le nuove norme. Garantito un canale prioritario nell’adozione alle famiglie che hanno minori in affidamento. Ma esclusi single e coppie di fatto

ROMA – Con un voto bipartisan, 385 voti a favore e solo due contrari, l’aula della Camera ha dato il via libera definitivo alla nuova legge sulla continuità affettiva, che introduce una corsia preferenziale per le adozioni da parte delle famiglie che hanno avuto in affido minori in stato di abbandono e adottabilità.  La legge dice una cosa semplice: le famiglie affidatarie hanno una corsia preferenziale nell’adozione. Ovvero d’ora in poi il tribunale dei minori ha il dovere di “tenere conto dei legami affettivi significativi e del rapporto stabile e duraturo consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria” prima di decidere i genitori adottivi dei minori in stato di abbandono. A tal fine, dovrà essere obbligatoriamente acquisito il parere dei serivizi  sociali. Una norma che dovrebbe essere naturale, scontata, visto che con quelle madri e padri ” a tempo” hanno magari già trascorso un pezzo di infanzia o di adolescenza. Invece in Italia ci sono voluti circa quindici anni, e un lavoro di mediazione certosina, perché si arrivasse ad una legge che permetterà, da domani, anche ai genitori dell’affido di ” concorrere” all’adozione del ragazzino e della ragazzina dei quali, di fatto, sono già figure fondamentali. Evitando così traumi e lacerazioni. Dalla norma sono però esclusi single e coppie di fatto, punto su cui si è incentrato lo scontro politico. “E’ importante – ha detto in aula il ministro della Giustizia Andrea Orlando prima del varo della nuova legge – che tutte le forze politiche abbiamo superato insieme le divisioni per abbattere una barriera a favore dei minori più deboli. E’ un primo passo positivo. Ed averlo fatto tutti insieme è un segnale forte e chiaro che la politica che si divide sa unirsi quando serve ed è chiaro l’approdo di dove si vuole andare con il nostro paese”.
LE NOVITÀ
Affidatari in corsia preferenziale. In caso di adozione è prevista una corsia preferenziale a favore di chi ha il bambino in affido. Il tribunale dei minori dovrà infatti tener conto, nel decidere sull’adozione, dei ‘legami affettivi significativi’ e del ‘rapporto stabile e duraturo’ consolidatosi tra il minore e la famiglia affidataria. La corsia preferenziale opera però solo se gli affidatari rispondono ai requisiti per l’adozione (stabile rapporto di coppia, idoneità all’adozione e differenza di età con l’adottato).
Tutela della continuità affettiva. Nell’interesse del minore è garantita continuità affettiva con gli affidatari (come ad esempio il diritto di visita) anche in caso di ritorno alla famiglia di origine e adozione o nuovo affido ad altra famiglia. Il giudice peraltro, nel decidere sul ritorno in famiglia, sull’adozione o sul nuovo affidamento dovrà ascoltare anche il minore.
Più poteri in tribunale. Si ampliano i diritti degli affidatari: chi ha il minore in affido è legittimato a intervenire (c’è l’obbligo di convocazione a pena di nullità) in tutti i procedimenti civili in materia di responsabilità genitoriale, affidamento e adottabilità relativi al minore. E’ poi prevista la facoltà di presentare memorie nell’interesse del minore.
Adozione degli orfani. Accanto ai parenti (fino al sesto grado) e alle persone legate da un rapporto stabile preesistente alla perdita dei genitori, anche l’affidatario potrà ora chiedere l’adozione di un orfano. In tal caso l’adozione è consentita anche alle coppie di fatto e alle persone singole.
http://www.repubblica.it/politica/2015/10/14/news/l_affido_puo_diventare_adozione_
la_legge_sulla_continuita_affettiva_e_legge-125088843/

 Quello che mi preoccupa

Ancora una volta anziché la figura del minore in quanto tale emerge un gruppo significativo: i bambini in affidamento per cui, in caso subentri l’adozione, non debba essere rotta la continuità affettiva con i genitori affidatari.
La legge 173 è una noma importante e valida che però non sì estende il principio della continuità affettiva oltre il gruppo identificato.
Perché non si considera con lo stesso criterio la stepchild adoption e la situazione dei figli dei migranti senza permesso di soggiorno che hanno diritto a vivere la loro esistenza nella loro famiglia che il pacchetto sicurezza nega?

8 Novembre 2015Permalink

1 novembre 2015 – Calendario di novembre

1 novembre 1911   –    Primo bombardamento aereo italiano in Libia (e primo bombardamento aereo della storia)
2 novembre 1975 –     Assassinio di Pasolini
3 novembre 1970  –     Salvador Allende diventa presidente del Cile
4 novembre 1966 –      Alluvione di Firenze
4 novembre 1995  –     Assassinio di Yitzhak Rabin –
6 novembre 1962 –     Risoluzione ONU contro l’apartheid in Sudafrica
7 novembre 1917 –     Rivoluzione d’Ottobre
8 novembre 1960 –     USA: elezione alla presidenza di J.F.Kennedy
9 novembre         –       Giornata internazionale contro il fascismo e l’antisemitismo
9 novembre 1938  –    Germania: “notte dei cristalli”
9 novembre 1989  –    Germania: abbattimento del muro di Berlino
9 novembre 1993 –     Distruzione del ponte di Mostar
10 novembre 1483  –  Nascita di Martin Lutero
11 novembre 1992 –   La chiesa anglicana inglese ammette le donne prete
13 novembre 2015 –    Stragi dell’ISIS a Parigi
15 novembre 1988 –   L’ANP annuncia la nascita dello stato palestinese
17 Novembre 1938 –  REGIO DECRETO LEGGE n. 1728 Provvedimenti per la difesa della razza italiana
19 novembre 1975 –   Spagna: morte di Francisco Franco
20 novembre               Giornata internazionale per i diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza
20 novembre 1945 –   Inizio del processo di Norimberga
20 novembre 1989 –   L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la Convenzione internazionale sui diritti del minore
22 novembre 2004 –   Ucraina: inizio della ‘rivoluzione arancione’
23 novembre 1971 –   La Cina sostituisce Taiwan nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
25 novembre 1973 –   Grecia: golpe militare
25 novembre 1992 –   Il Parlamento vota la divisione fra Repubblica Ceca e Slovacca
26 novembre 1915 –   Einstein presenta la teoria della relatività generale
26 novembre 1954 –   Ritorno di Trieste all’Italia
27 novembre 1941 –   Resa di Gondar: l’Italia lascia l’Africa Orientale
29 novembre –            ONU: giornata internazionale di solidarietà con il popolo palestinese
30 novembre 1943 –   Morte di Etty Hillesum ad Auschwitz
30 novembre 1999 –   Seattle: prima mobilitazione del movimento no-global
Giornate internazionali celebrate dalle Nazioni Unite

http://www.centrounesco.to.it/?action=view&id=337

 

 

1 Novembre 2015Permalink

29 ottobre 2015 – Lo ius soli approda in parlamento e i figli dei sans papier non sono cancellati

Da Ho un sogno n. 240 – L’ITALIA SONO ANCH’IO

Non c’è solo lo Ius soli

Il 14 ottobre, dopo essere stata votata dalla Camera è all’attenzione del Senato la legge “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”. Si tratta del risultato del dibattito aperto nel 2012 dalla proposta di legge a iniziativa popolare che proponeva il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli. Probabilmente molti ricordano lo slogan accattivante che apriva quella campagna “L’Italia sono anch’io” che non ha cancellato l’equivoco in cui molti sono caduti immaginando uno ius soli assoluto (simile a quello praticato negli USA). Non era e non è così. La norma, che si presenta ora al dibattito del Senato e introduce il principio dello ius culturae, è evidentemente il frutto di una mediazione e propone limiti più significativi di quelli della prima iniziativa.

I bambini nati in Italia saranno italiani per nascita solo se almeno uno dei genitori abbia il permesso Ue per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extraUe) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini Ue). Altrimenti, come gli altri bambini non nati in Italia, ma arrivati qui entro i dodici anni, dovranno prima frequentare uno o più cicli scolastici per almeno 5 anni e, se si tratta delle elementari, concluderle positivamente.

Per l’acquisto della cittadinanza servirà una dichiarazione di volontà presentata in Comune da un genitore entro il compimento della maggiore età del figlio, altrimenti questo potrà presentarla personalmente tra i 18 e i 20 anni. Sempre tra i 18 e i 20 anni il diretto interessato potrà anche rinunciare alla cittadi­nanza italiana, purché sia possesso di altra cittadinanza. Diverse le regole per i ragazzi arrivati in Italia entro i 18 anni di età. Potranno diventare italiani dopo sei anni di residenza regolare e dopo aver frequentato e concluso un ciclo scolastico o un percorso di istruzione e formazione professionale. In questo caso, però, non si tratterà di un diritto acquisito, ma di una “concessione”, soggetta quindi a una certa discrezionalità da parte dello Stato.

C’è anche una norma transitoria per chi ha superato i 20 anni, ma intanto ha maturato i requisiti previsti dalla nuova legge. Potranno infatti diventare italiani i nati in Italia, o arrivati qui quando avevano meno di dodici anni, se abbiano frequentato in Italia per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici e risieduto “legalmente e ininterrottamente negli ultimi cinque anni nel territorio nazionale”.

Chi rientra nella norma transitoria avrà solo un anno di tem­po dall’ entrata in vigore della riforma per presentare in Comune la dichiarazione di volontà e diventare italiano. Dovrà poi però aspettare che entro sei mesi il ministero dell’Interno dia il via libera, dopo aver verificato che a suo carico in passato non ci siano stati dinieghi di cittadinanza, espulsioni o allontanamenti per motivi di sicurezza della Repubblica.

Certificato di nascita ai figli dei sans papier

Nel testo precedente abbiamo cercato di riassumere la com­plessa norma, approvata dalla camera e che il senato si ap­presta a discutere, sulle “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”. Vogliamo ora soffermarci su una questione che Ho un sogno segue con continuità da anni e che si intreccia con la problematica della cittadinanza. Nel 2009 il pacchetto sicurezza aveva imposto la presentazione del permesso di soggiorno anche per la registrazione degli atti di stato civile (legge 94/2009, art.1, comma 22 lettera g). Ora, se sarà approvata la legge all’attenzione del senato(n. 2092) si tornerà al regime precedente e di nuovo non potrà venir richiesto il permesso di soggiorno a chi si presenterà a registrare la dichiarazione di nascita del proprio figlio (art. 2 comma 3 del progetto 2092). Ciò porrà anche i figli dei sans papier in condizione di attenersi alle nuove norme sulla richiesta della cittadinanza definendo la data della propria nascita (finalmente registrata in un documento ufficiale) come punto di partenza per tutti gli adempimenti, anche di ordine temporale, che la legge prevede. Non solo, ma i genitori, finalmente riconosciuti tali, potranno provvedere agli atti necessari per aprire al figlio, nato in Italia dopo il 2009 e forse non registrato all’anagrafe, il percorso per ottenere la cittadinanza italiana.

29 Ottobre 2015Permalink

28 ottobre 2015 – Sbucano i bambini invisibili – Quarta puntata

Le puntate precedenti.
E’ il caso di fare il punto per dirmi la continuità del mio ragionamento, se continuità c’è: verifico:

16 ottobre  –  Prima puntata.
Ho riportato  il tratto essenziale del comunicato della camera dei deputati. Trascrivo “Nella parte antimeridiana della seduta odierna la Camera ha approvato il testo unificato delle proposte di legge recante Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di cittadinanza. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato”.
L’articolo 2 di quella proposta al comma 3 recita la formula che supererebbe l’obbligo a presentare il permesso di soggiorno per registrare le dichiarazioni di nascita:
Al comma 2 dell’articolo 6 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, dopo le parole: «carattere temporaneo» sono inserite le seguenti: «, per i provvedimenti inerenti agli atti di stato civile».”

17 ottobre  –  seconda puntata
Le due leggi che avrebbero modificato  la norma del 2009 e che, se approvate renderebbero ora inutile l’intervento entro la proposta dello ius soli o culturae che sia se ne stanno all’attenzione della camera dal 2013 e del senato dal 2014. Probabilmente se ci fosse stata una qualche spinta a discuterle l’operazione sarebbe andata a buon fine (o, se ciò non fosse avvenuto,  avremmo saputo di una scelta maggioritaria a sfondo razzista del parlamento italiano) ma sono rimaste tranquille là dov’erano e sono, a cui la mia analisi, relativa ai soggetti della mia indignazione: i partiti politici, la società civile, i mezzi di informazione

18 ottobre  –  terza puntata
Ho ricopiato la relazione letta il 9 ottobre nell’incontro ospitato al centro Balducci perché contiene una traccia di una storia che per me è doveroso non dimenticare

Avviandomi alla quinta puntata so che prima o poi dovrò affrontare il significato del Sinodo sulla famiglia, conclusosi domenica, di cui cercherò di analizzare le posizioni prese e non prese relativamente ai bambini. Su questo avevo scritto al vescovo di Chieti e Vasto, mons Forte, segretario speciale dell’Assemblea dei vescovi per il Sinodo che significativamente non  mi ha risposto su documenti prodotti dalla chiesa ma su Il Sole 24 ore. Gli è stato vietato altro spazio? Ho pubblicato la mia lettera (inviata il 25 giugno) il 28 giugno e il suo articolo (pubblicato il 28 giugno)  il  29 dello stesso mese. Nella pagina di Avvenire, curata il 30 settembre dalla giornalista Lucia Bellaspiga, mons. Forte definisce la negazione della registrazione della dichiarazione di nascita ‘un fatto iniquo’. E’ molto importante che alla definizione di iniquità unisca la parola fatto. Non so quante volte mi sono scontrata con persone che mi chiedevano ‘fatti’, intendendo per fatto un corpo (possibilmente morto o ferito) e un nome e un cognome. Mons Forte ha capito che una legge è un fatto. Almeno uno!

Per leggere il testo della legge sulla cittadinanza come approdata in sentato (e da ieri al dibattito della commissione Affari Costituzionali) andare a:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLPRES/940816/index.html?stampa=si&part=ddlpres_ddlpres1-articolato_articolato1&spart=si

28 Ottobre 2015Permalink

27 ottobre 2015 – Giornata del dialogo cristiano islamico

Appello per la XIV Giornata ecumenica del dialogo cristiano islamico

Cristiani e musulmani, lo diciamo da sempre, hanno profonde radici comuni. Già lo scorso anno ne abbiamo indicato due, quelli della misericordia e della compassione. Islam e cristianesimo, di più, sono religioni di pace. E per costruire un mondo di pace c’è bisogno che le due religioni mondiali maggioritarie, che sono l’islam ed il cristianesimo,  sappiano riscoprire le comuni radici di pace in tutte le loro molteplici declinazioni, fra cui quest’anno vogliamo indicare alle comunità cristiane e musulmane, come tema per la quattordicesima giornata ecumenica del dialogo cristiano islamico del 27 ottobre 2015, quelle dell’accoglienza dello straniero, del rifugiato, dell’aiuto ai poveri, agli ultimi della società, per costruire la convivenza pacifica, che abbiamo sintetizzato in : «Cristiani e musulmani: dall’accoglienza alla convivenza pacifica». I nostri rispettivi testi sacri dicono parole chiare su tale aspetto, checché ne dicano coloro che vorrebbero piegare sia l’islam che il cristianesimo alla logica della guerra.  Questo crediamo possa essere la strada per costruire una società libera dal terrore della guerra nucleare, dalla paura continua di qualsiasi essere umano diverso da noi, riscoprendo la comune umanità, il comune bisogno di accoglienza e di vivere pacificamente, come figli e figlie dell’unica Madre Terra che ci ospita. La ricca e opulenta Europa ed il cosiddetto “occidente”, non potranno assolversi dalle proprie gravissime colpe nei confronti dei popoli che hanno depredato delle loro risorse e che hanno costretto a subire la guerra e poi a fuggire e a divenire profughi, se non fermando la vendita degli armamenti, che sostengono la guerra e producono milioni di profughi, e ponendo fine alla depredazione delle risorse dei popoli africani, asiatici o sudamericani. Chi vuole pace per se dovrà imparare a dare pace agli altri. E questo lo si potrà fare riscoprendo le vere radici comuni alle religioni monoteiste, ad islam, cristianesimo ed ebraismo, che sono l’accoglienza, l’ospitalità, la misericordia, la pace, perché “la terrà è di Dio” e nessuno ha il diritto di dichiararla propria e sfruttarla a proprio uso e consumo. Uomini e donne di pace cercasi. Con un fraterno augurio di shalom, salaam, pace Il Comitato Organizzatore

Roma, 25 giugno 2015

Per informazioni www.ildialogo.org

Fra i vari messaggi di adesione trascrivo: L’Amicizia Ebraico Cristiana di Napoli, …, fermamente convinta che la Pace si ottiene con la conoscenza e l’accoglienza dell’altro fa proprio l’Appello per la XIV Giornata del Dialogo Cristiano Islamico

Inserisco per ora (riservandomi di trascriverli a mia futura memoria) due link ad articoli di Grossman e Yehoshua che contengono anche valutazioni delle dichiarazioni di Netanyahu

DAVID GROSSMAN. Fra Storia e finzione le ossessioni di Bibi tengono in trappola il popolo israeliano

http://www.lastampa.it/2015/10/27/esteri/yehoshua-alla-pace-non-crede-pi-nessuno-lora-che-leuropa-agisca-vYmXUUejV3Cj9kfZUunk3N/pagina.html

aggiungo questa nota di Gad Lerner

Scandalo dell’Israelitico di Roma: emerge l’uso strumentale dell’accusa di antisemitismo

27 Ottobre 2015Permalink

26 ottobre 2016 – Blair chiede scusa!!??

La svolta di Tony Blair sull’Iraq: “Io e Bush abbiamo sbagliato”

da La Repubblica di oggi

L’ex premier britannico, intervistato dalla Cnn, ammette una serie di errori. Dai dossier sulle armi di distruzione di massa al diffondersi del terrorismo islamico

dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI

LONDRA – Dodici anni dopo la controversa invasione che è costata centinaia di migliaia o forse milioni di vite umane, e il posto di primo ministro a lui, Tony Blair dice: “I am sorry”. L’ex leader laburista chiede scusa, anzi tre volte scusa: per gli errori dello spionaggio britannico che avevano attribuito a Saddam Hussein il possesso di armi di distruzione di massa (la ragione ufficiale per l’intervento militare del Regno Unito accanto agli Stati Uniti), per errori nella pianificazione della guerra e per la mancata comprensione di quelle che sarebbero state le conseguenze del conflitto, ovvero per l’instabilità che ha sconvolto l’Iraq e le regioni circostanti. Di fatto Blair ammette la propria responsabilità anche per l’ascesa del fanatismo islamico, incluso il sorgere dell’Is, il sedicente Califfato dei jihadisti che oggi controlla parte dell’Iraq e della Siria. Ma l’expremier continua a rifiutare di scusarsi per avere abbattuto Saddam. Un “mea culpa” parziale ma pur sempre clamoroso, fatto in una lunga intervista alla Cnn, la rete televisiva Usa di sole news, con una serie di dichiarazioni rimbalzate al di qua dell’Atlantico che ieri occupavano la prima pagina del Mail on Sunday, del Sunday Times e di altri giornali inglesi. Un rilievo comprensibile, considerato che è la prima volta che Blair chiede formalmente scusa e ammette sbagli nella organizzazione e gestione della guerra in Iraq, oltre che del dopoguerra. Parole che fanno tanto più notizia dopo che, qualche giorno fa, proprio un quotidiano di Londra ha rivelato un memorandum segreto della Casa Bianca in cui Blair, un anno prima dell’entrata in guerra, si era di fatto impegnato con l’allora presidente americano George W. Bush a partecipare al conflitto come alleato degli Stati Uniti in qualunque caso e circostanza. Cioè indipendentemente dalle motivazioni ufficiali  –  il possesso di armi chimiche o biologiche  –  in seguito usate da Downing street per convincere il parlamento britannico e l’opinione pubblica del proprio paese ad approvare la guerra. Tenuto conto che è poi emerso che Saddam Hussein non aveva armi di distruzione di massa, gli ha chiesto la Cnn , ritiene che la guerra in Iraq sia stata un errore? “Mi scuso per il fatto che l’intelligence da noi ricevuta al riguardo fosse sbagliata. E mi scuso per alcuni degli errori che abbiamo fatto nella pianificazione e, certamente, per il nostro errore nel non comprendere cosa sarebbe accaduto in Iraq una volta che Saddam fosse stato rimosso dal potere. Ma faccio fatica a scusarmi per avere rimosso Saddam”. E a una domanda successiva, sulla responsabilità della guerra in Iraq sul diffondersi dell’estremismo islamico anti-occidentale e in particolare all’ascesa dell’Isis, Blair risponde: “Penso ci siano elementi di verità in una simile visione. Non si può dire, naturalmente, che quelli di noi che hanno rimosso Saddam non hanno responsabilità per la situazione che si è creata (nella regione, ndr) nel 2015”. L’ex premier non accetta di essere chiamato un “criminale di guerra” per i morti e i danni materiali causati dal conflitto e rivendica il fatto di avere vinto un’elezione (la sua terza consecutiva) dopo la guerra; ma riconosce che l’Iraq è stato “un enorme problema politico” per lui. In effetti è stato il problema che gli ha fatto perdere il posto, perché senza le polemiche sulla guerra difficilmente il suo vice Gordon Brown sarebbe riuscito a costringerlo a dimettersi nel 2007 per sostituirlo a Downing street: è verosimile che Blair sarebbe rimasto ancora al potere e avrebbe cercato di vincere una quarta elezione, contro il conservatore David Cameron, nel 2010. Come che sia, oltre a pesare sul giudizio della storia, il “mea culpa” di Blair potrebbe pesare sull’inchiesta ancora in corso sulla guerra in Iraq, affidata a una commissione indipendente britannica. Due precedenti inchieste governative avevano assolto Blair da ogni responsabilità e particolarmente dal sospetto di avere tramato insieme ai capi dei servizi segreti per gonfiare il dossier sui presunti armamenti di distruzione di massa in mano a Saddam. Ma 12 anni dopo l’Iraq continua a essere lo spettro che tormenta il laburista di maggiore successo elettorale della storia.

http://www.repubblica.it/esteri/2015/10/26/news/blair_iraq-125892929/

26 Ottobre 2015Permalink

23 ottobre 2015 – Un vecchio, ma sempre valido, articolo di Moni Ovadia

“Oltre alle ragioni che lo definiscono, il conflitto israelo-palestinese è importante perché evoca ripetutamente, nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. I processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimano un’’industria dell’Olocausto’. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria”

Il conflitto israelo-palestinese è uno dei problemi centrali del nostro tempo sul piano reale ma ancor di più sul piano della percezione simbolica, anche se tutto sommato riguarda un numero limitato di persone rispetto alle moltitudini dei grandi scacchieri incandescenti. Perché è tanto importante? A mio parere perché, oltre alle ragioni fattuali che lo definiscono, evoca ripetutamente nella dimensione fantasmatica, lo spettro dell’antisemitismo, quello del suo esito catastrofico, la Shoah, ma anche quello del suo doppio negativo, la vittima che diventa carnefice. La Shoah non solo ha espresso in sé il male assoluto, ma ha cambiato definitivamente la nostra visione antropologica del mondo e ha sconvolto le categorie del pensiero e del linguaggio. Oggi, la memoria della Shoah entra nel conflitto sul piano dell’immaginario producendo rebound psicopatologici che mettono in scacco non solo il dialogo fra posizioni diverse, ma la possibilità stessa di elaborare un approccio critico senza provocare reazioni isteriche o furiose.

Molti ebrei in Israele e nella diaspora, reagiscono psicologicamente a ogni riflessione severa come se, invece di vivere a Tel Aviv o a Parigi nel 2014, vivessero a Berlino nel 1935. Ora, essendo ebreo anch’io, per dovere di onestà intellettuale è giusto che dichiari la mia posizione perché essa è tutt’altro che neutrale. Sostengo con piena adesione i diritti del popolo Palestinese, non contro Israele, ma perché il loro riconoscimento è, a mio parere, precondizione per ogni trattativa che porti alla pace. Ritengo che la responsabilità principale (non unica) dell’attuale disastro, abbia origine nella cinquantennale occupazione da parte dell’esercito e dell’Autorità israeliana e la relativa illegittima colonizzazione delle terre che appartengono ai palestinesi secondo i decreti della legalità internazionale. Su Gaza, l’“occupazione” è esercitata sempre da parte dell’autorità civile e militare di Israele con un ininterrotto assedio e comporta il totale controllo dell’entrata e uscita delle merci e delle persone, dello spazio aereo, marittimo, delle risorse idriche, energetiche e persino dell’anagrafe. I tunnel, in qualche misura, sono una risposta a questo stato di cose. I missili lanciati contro la popolazione civile di Israele sono atto di guerra illegale secondo le convenzioni internazionali, ma non si può far finta di dimenticare che un assedio è esso stesso atto di guerra.

È stata pratica sistematica degli ultimi governi israeliani il mantenimento dello status quo attraverso la politica dei fatti compiuti e il mantenimento dello status quo impedisce, de facto, ogni altro sbocco come quello della trattativa. Lo dimostra il reiterato nulla di fatto con Abu Mazen che, in cambio della sua super disponibilità a trattare, ha ricevuto solo umiliazioni anche dal finto mediatore statunitense. Ora, la politica dello status quo significa contestualmente il suo peggioramento e l’ineludibile scoppio dei ciclici conflitti con Hamas che terminano con la devastazione di Gaza, una micidiale conta di vittime civili palestinesi e, fortunatamente sul piano umanitario, un esiguo numero di vittime israeliane, soprattutto militari. Ciò non significa che non siano vittime e che la loro morte non sia un lutto.

Gli zeloti pro israeliani quando ascoltano o leggono queste mie opinioni critiche, reagiscono immancabilmente con insulti, maledizioni e invettive. Il genere è: “Sei un rinnegato, nemico del popolo ebraico, ebreo antisemita o ebreo che odia se stesso”. La critica da parte di un ebreo della diaspora alla politica di governi israeliani può essere considerata tradimento, antisemitismo od odio verso se stessi solo se collocata nel quadro di un’identificazione nazionalista di ebreo, israeliano, popolo ebraico, popolo d’Israele, Stato d’Israele, suo governo e “terra promessa”. Ma se qualcuno osa fare notare, da posizioni critiche, tale pericolosa identificazione, ecco arrivare addosso all’incauto le accuse infamanti di antisemita o antisionista, che, per molti “amici di Israele” – anche persone di indiscutibile livello culturale –, sono la stessa cosa. Il carattere fantasmatico della percezione della critica come minaccia innesca irrazionali reazioni furiose che producono alluvioni di tweet, di email rivolte agli organi di stampa e di esternazioni su Facebook dove il diritto all’incontinenza mentale è garantita dell’indipendenza della Rete.

L’ossessione della nuova Shoah dietro la porta scatena processi di permanente vittimizzazione che si sinergizzano con i complessi di colpa occidentali, legittimando un’“industria dell’Olocausto” che fa un uso strumentale e ricattatorio della memoria dell’immane catastrofe per fini di propaganda, come bene spiega un saggio fondamentale di Norman Finkielstein, uno scrittore ebreo statunitense. Questa, a mio parere, è una delle derive più allarmanti e ciniche della memoria stessa a cui si prestano non pochi politici europei reazionari o ex-post fascisti, magari facendosi intervistare all’uscita da una visita al memoriale di un lager nazista per dichiarare: “Mi sento israeliano!”. Questo è un modo per trarre “profitto” dall’orrore a vantaggio degli eredi delle classi politiche europee che non si opposero allora al nazismo e all’antisemitismo e oggi lasciano sguazzare indisturbati, nell’Europa comunitaria, neonazisti di ogni risma. L’infame Europa del mainstream delle sue classi dirigenti conservatrici allora stette a guardare lo sporco lavoro dei nazisti collaborando o, nel migliore dei casi, rimanendo indifferenti. Dopo la guerra questi signori hanno progressivamente trattato “il problema ebraico” “esportandolo” con piglio colonialista in medioriente. Oggi cercano credibilità e verginità israelianizzando tout court l’ebreo con una mortificante omologazione.

A questa operazione si prestano purtroppo le dirigenze della gran parte delle istituzioni ebraiche, come ha dimostrato il caso della cantante Noa. L’artista israeliana doveva tenere un concerto a Milano organizzato dall’Adei Wizo, un’organizzazione femminile ebraica. Ma Noa, per il solo fatto di avere espresso l’opinione che la colpa dell’ultimo conflitto di Gaza era degli estremisti delle due parti, si è vista cancellare il concerto. Questo episodio dimostra che neppure una dichiarazione equilibrata, neanche se fatta da una cittadina israeliana, sia accettabile per chi vuole omologare l’ebreo all’israeliano, salvo poi infuriarsi indignato con chi smaschera l’intento. Dall’altra parte, ultras “filopalestinesi” si esercitano nella gratificante impresa di fare di Auschwitz, del nazismo e della svastica, oggetti contundenti da scagliare contro l’ebreo in Israele e spesso contro l’ebreo tout court, ma soprattutto contro il vagheggiato ebreo onnipotente della mitica lobby ebraica. L’intento è quello di dimostrare che Israele è come la Germania di Hitler e che ebrei si comportano come SS. Sotto sotto c’è la vocazione impossibile e sconcia di pareggiare i conti per neutralizzare il deterrente della Memoria. Ma questa sottocultura pseudopolitica, prima di scandalizzare, colpisce per la sua deprimente rozzezza. Sarebbe facile dimostrare l’assurdità di simili farneticazioni, inoltre finisce sempre per rivelarsi una sorta di boomerang che danneggia la causa palestinese. Tutto ciò poco interessa a chi deve placare il proprio narcisismo militante, inoltre, questo tipo di militanza che si esprime con slogan di “estrema sinistra” e di roghi di bandiere ha inquietanti punti di contatto con quella dei neonazisti che, pur di soddisfare la loro inestinguibile sete di antisemitismo, si iscrivono fra gli ultras filopalestinesi. Per denunciare l’oppressione del popolo palestinese ci sono un linguaggio puntuale e concetti giuridici elaborati dal diritto internazionale. È dissennato proiettare l’immaginario della memoria della Shoah in paragoni inaccettabili. Anche i proclami di antisionismo sono poco sensati, poco centrati e non tengono conto delle articolazioni del fenomeno.

A mio parere, il sionismo in quanto tale si è estinto da un pezzo. Anche di esso sono rimaste proiezioni fantasmatiche mentre nella realtà l’ideologia della destra reazionaria dominante in Israele è un ultranazionalismo del “grande Israele” compromesso con il fanatismo religioso. Del sionismo è rimasto lo spirito dell’equivoco slogan delle origini: “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”. Ancora oggi, a distanza di più di un secolo, la destra reazionaria di Netanyahu ha re-imbracciato quella miopia militante che vorrebbe cancellare nei palestinesi lo status di nazione e di popolo. Ma in questi ultimi giorni perfino il falco Bibi, mettendo la mordacchia ai più falchi di lui nel suo governo, ha intuito che nella sanguinosa polveriera mediorientale una tregua “duratura e permanente” con Hamas è più auspicabile che far scempio di civili innocenti. Secondo me, ciò di cui c’è vitale bisogno in Israele è che la sua classe dirigente si armi di coscienza critica e di lungimirante pragmatismo per dismettere vittimizzazione e propaganda e ascoltare anche le critiche più dure come un contributo e non come un pericolo. Certo, una tregua non fa primavera né la fa una manifestazione della fragile opposizione che in giorni recenti è coraggiosamente tornata a mostrarsi in piazza Rabin per fare ascoltare una lingua diversa da quella dello sciovinismo militare. Ma sono barlumi di una possibile alternativa all’asfissia della guerra. di Moni Ovadia 

Da Il Fatto Quotidiano del 29 Agosto 2014

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/29/gaza-moni-ovadia-io-ebreo-sostengo-i-diritti-palestinesi-ecco-perche/1102601/

 

 

23 Ottobre 2015Permalink

18 ottobre 2015 – Sbucano i bambini invisibili –Terza puntata

Una integrazione

Ieri ho scritto anche degli ostacoli incontrati nella società civile nel portare avanti la segnalazione del rifiuto al certificato di nascita. Si tratta di atteggiamenti omissori non di aperto contrasto (almeno nella maggior parte) ma ho dovuto constatare che non riesco a chiarire equivoci anche in gruppi significativi.
Da uno di questi ho ricevuto un messaggio che mi ha molto turbato.
Nella consapevolezza che al momento è essenziale l’approvazione del comma 3 dell’articolo 2 della norma che porta il numero 2092 per superare la disposizione della legge del 2009 che negava (e nega perché ancora in vigore) l’esistenza giuridica ai figli dei sans papier, preferisco – per ragioni di chiarezza e trasparenza – riportare la mia relazione al convegno cui il 9 ottobre ha dato ospitalità il Centro Balducci .

Relazione del 9 ottobre

Nell’anno 2009, al tempo del quarto governo Berlusconi, ministro dell’interno l’on Maroni, il Parlamento italiano si apprestava a votare la legge che, approvata, sarebbe stata chiamata ‘pacchetto sicurezza’. La votazione si sarebbe conclusa con voto di fiducia nel mese di luglio e la legge avrebbe portato il n. 94. Molto ci sarebbe da dire in proposito ma mi soffermerò soltanto sull’oggetto di cui al titolo di questo incontro: i bambini invisibili.

I bambini, una particolare categoria di bambini costruita per l’occasione, vennero resi invisibili a seguito della lettera g, del comma 22, dell’art. 1 della legge 94/2009. Quella lettera afferma, sia pur attraverso una formula criptica che si rifiuta alla immediata lettura, che lo straniero non comunitario debba presentare il permesso di soggiorno per registrare la dichiarazione della nascita in Italia del proprio figlio. Così si è negata a un padre, a una madre la possibilità di assicurare al proprio figlio un nome, un’identità, di testimoniarne la cittadinanza ed affermarne il diritto di essere componente riconosciuto della propria famiglia. Sono i dati che vengono trascritti nel certificato di nascita. Il certificato è diritto personale del bambino ma oggi in Italia sulla testa del genitore che, privo del titolo di soggiorno, glielo voglia assicurare quale fondamento di un’esistenza giuridicamente riconosciuta, pesa il rischio dell’espulsione. Il diritto del nuovo nato si è fatto trappola. Spesso alle critiche viene opposta una questione  di quantità. Quante volte mi sono sentita chiedere: “Ma quanti sono?”. Non è un problema di quantità, non stiamo pesando le bottiglie rotte in un cassonetto della raccolta differenziata per capire a che punto il comune tragga profitto dalla raccolta, stiamo affermando un diritto assoluto che l’umanità dovrebbe sostenere prima ancora della legge. Ce lo ricorda da quattro anni la Convention on the Rights of the Child , gruppo che raccoglie associazioni e realtà coordinate da Save the Children  e chiede con forza una soluzione istituzionale del problema, raccomandando al Parlamento una riforma legislativa che garantisca il diritto alla registrazione di tutti i minori nati in Italia, indipendentemente dalla situazione amministrativa dei genitori. Certamente anche il governo in carica nel 2009 previde un sistema di salvezza, ma non in legge; scelse di affidare la sorte di un nuovo essere umano alla labile volatilità di una circolare. Non voglio entrare ora nella tecnicità della legge. Abbiamo qui chi potrà dircene con più competenza e significato di ruolo di quanto io abbia e soprattutto potrà informarci in merito alle modifiche che si stanno discutendo (o sono già state discusse) alla camera a proposito della lettera g. Quindi continuo con la narrazione, lasciando all’on Rosato l’onore di poterci aprire alla speranza che potrebbe consentirci di parlare al presente di quanto io sto per narrare al passato, a un passato che non dobbiamo però dimenticare e, per capirne il significato, è utile ripercorrerne la storia. Aprendo questo intervento ho parlato del periodo in cui il Parlamento si apprestava a votare la legge perché ha una specifica importanza che impegna ad attenzione e gratitudine per chi in quel periodo è stato pubblicamente attivo.

Infatti il progetto presentato prevedeva la cancellazione dell’articolo in vigore allora – e ancora oggi – che recita “L’accesso alle strutture sanitarie da parte dello straniero non in regola con le norme sul soggiorno non può comportare alcun tipo di segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano”.

Se fosse stata realizzata la cancellazione dell’articolo che ho appena letto,  sarebbe stato cancellato il principio del segreto professionale fondante la deontologia medica che impegna il medico a                                                        (art. 10 del codice di deontologia medica)

“mantenere il segreto su tutto ciò di cui è a conoscenza in ragione della propria attività professionale”. … e precisa che “la violazione del segreto professionale assume maggiore gravità quando ne possa derivare … nocumento per la persona assistita o per altri”.

Ricordo la reazione allora fortissima degli ordini professionali da noi pubblicizzata dalla componente locale della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni e voglio citare quanto scrisse l’allora presidente provinciale dell’Ordine dei medici di Udine in un comunicato pubblicato anche dai media locali:

“ Qualora dovessero passare i provvedimenti annunciati dal governo, i medici dovranno rifiutarsi di denunciare i pazienti immigrati irregolari, esercitando l’obiezione di coscienza per non venir meno ai principi etici e deontologici della loro professione”.

Purtroppo, anche per l’indifferenza della società che si definisce civile, la lettera g invece restò, penalizzando per due anni anche chi volesse sposarsi pur se privo di permesso  di soggiorno. Ho detto per due anni perché nel 2011 una sentenza della Corte Costituzionale sottrasse i matrimoni alla previsione della lettera g rimasta come un inamovibile, squallido e disonorante pilastro, per penalizzare esclusivamente i neonati, ultimo resto di un progetto che si era proposto di usare anche la debolezza del malato, dell’infartuato, del ferito per farne forza di chi lo volesse distruggere. E in ogni caso la ‘debolezza’ da usarsi era quella dello straniero non comunitario attraverso uno slalom fra le maglie delle leggi per sentirsi vincitori di non so che e come tali presentarsi a una popolazione che si voleva e si vuole e si costruisce impaurita. Ora quella forza può ancora rivolgersi legalmente solo contro i neonati. Ormai solo alla politica – che non si umili alla ricerca di consenso fondato sul numero di chi si associ alla volontà devastatrice– è dato essere parola autorevole e alta per affermare un principio che ne proclami l’onore nel farsi voce di chi nasce sul nostro territorio, chiunque sia, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali                                                                           (art. 3 Costituzione).

Per capire il senso del disprezzo che consente di penalizzare i neonati, alcuni neonati, fino a negarne l’esistenza legale –ci aiuta anche la storia e non mi rifaccio alla grande storia che ci ha fornito testimonianze incancellabili (per brevità ricordo due nomi soltanto, Primo Levi e Hannah Arendt che ci hanno offerto strumenti per pensare l’impensabile e per dire l’indicibile). Voglio invece far memoria di un esempio di piccola storia, quella della famiglia Cardosi, una famiglia italiana la cui madre fu deportata ad Auschwitz dove morì. Racconta una figlia in un prezioso libretto che onora la piccola editoria per essere stato pubblicato ma che è immeritatamente poco noto:

Mia madre era stata arrestata, perché ebrea, la mattina del 12 maggio 1944 nella nostra abitazione di Gallarate da agenti di pubblica sicurezza per ordine della questura di Varese … e consegnata alle SS del comando di polizia germanica del carcere di San Vittore a Milano”. La colpa di quella donna era di essere ebrea e questa sua caratteristica di razza era stata identificata da solerti funzionari italiani del regno d’Italia ancora nel 1938 quando, a seguito delle leggi razziali, era stata cacciata dalle scuole del regno dove insegnava come maestra elementare. E non l’aveva salvata neppure l’essere cattolica e sposata a un ‘ariano’. Dal 13 maggio all’ 8 giugno 1944 fu ristretta nel carcere di San Vittore a Milano, poi spostata a Fossoli e infine definitivamente ad Auschwitz. La figlia maggiore, Giuliana allora diciottenne, così ci narra della sua visita al carcere. Era in fila con i familiari dei detenuti cui era concesso portare un pacco per il cambio di biancheria e viveri e

Quando venne il mio turno l’agente di custodia italiano incaricato del ritiro dei pacchi, dopo un rapido controllo sui registri, mi disse che il nome della mamma non risultava. Mi chiese il motivo dell’arresto e quando glielo dissi raccolse il mio fagotto e me lo scaraventò in faccia”.

Se una persona non ha un nome giuridicamente riconosciuto non può avere rapporti familiari: la sua famiglia come luogo di relazioni definite, non esiste. La situazione dei detenuti a San Vittore è confermata dal rapporto inviato dal comandante provinciale della Guardia nazionale repubblicana di Milano l’11 gennaio 1945 al capo della Provincia di Milano e per conoscenza alla G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana – a scanso di equivoci non si tratta della Repubblica Italiana ma della repubblica di Salò). Testimoniando la presenza all’interno del carcere di San Vittore di due reparti, uno giudiziario e uno tedesco, scrive

Non risulta … che i detenuti presso questo reparto vengano sottoposti a mezzi coercitivi. La disciplina è alquanto rigida su ciò che concerne il tenore di vita dei detenuti. Non così si può dire per i detenuti di razza ebraica, la sorte dei quali si ignora”. Era e ancora può essere il destino dei senza nome quando arrivano al vortice che via via si forma per cui c’è sempre un punto di partenza. Affido alla riflessione di tutti noi il commento di Giuliana Cardosi:

 “Capii allora che .. gli ebrei avevano perduto qualsiasi identità , quindi nei loro confronti la violazione di qualsiasi obbligo civile ed umano era permessa”.

Non credo ci sia bisogno di declinare le tante analogie fra gli eventi del 1944 e la situazione che si è voluta rendere possibile sei ani fa. Non ne avrei il tempo e non credo sia necessario. Quel pacco negato arrivò a Clara Pirani, la mamma di Giuliana Cardosi, per l’attività clandestina di un agente penitenziario, Andrea Schivo, che si fece garante di umanità nel mantenere il legame fra i familiari e i carcerati. Quando fu scoperto finì a Flossemburg  dove morì il 29 gennaio 1945. E’ ricordato in Israele allo Yad Vashem (il museo dell’olocausto di Gerusalemme) come Giusto fra le nazioni. In Italia le sorelle Cardosi (Giuliana, Marisa e Gabriella) gli hanno dedicato il loro libro. E io mi permetto di affidare la sua memoria, che ci onora fra tanto squallore, alla presidente dell’Ufficio regionale FVG di Garanzia dei diritti della persona con la funzione specifica di garanzia per i bambini e gli adolescenti. Per fortuna di tutti noi ha ben altri strumenti di quel fondamentale rispetto di sé come essere umano che Andrea Schivo seppe efficacemente manifestare di cui sa fare l’uso migliore, garante di bambini e adolescenti che – se le vengono presentati – sono in stato di sofferenza e sono anche certa che saprà sostenere i parlamentari che vogliono liberarci dalla vergogna che ci è stata imposta con una legge che conta ormai sei anni.

Ricordo che l’organizzazione mondiale della sanità ha definito la salute: stato di benessere fisico, mentale e sociale e sono certa che tutti vogliano e vogliamo (perché non si può giocare con le responsabilità) associarsi, come medici di una ferita non del corpo ma di umanità, all’antico giuramento di Ippocrate che fa parte delle nostre radici di europei fin dal IV secolo a. C. In un suo passo recita In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l’altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.

[continua3]

18 Ottobre 2015Permalink