Da molto tempo trascuro il mio blog.
Mi sento quindi obbligata a riprendere la questione della registrazione anagrafica dei nati in Italia, negata dal 2009 ai figli dii migranti privi del permesso di soggiorno.
L’art. 3 della Costituzione afferma al primo comma che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Il legislatore italiano sembra averlo rimosso dalla propria attenzione e offre lo stesso disimpegno alla Agenda 2030 delle Nazioni Unite il cui obiettivo 16.9 afferma:
“Entro il 2030 fornire identità giuridica per tutti, inclusa la registrazione delle nascite”.
E’ stata presentata una proposta di legge (3048) che si intitola “”Modifica all’articolo 6 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, in materia di obbligo di esibizione dei documenti di soggiorno”
A otto mesi dalla presentazione però dormicchia con firme del solo Pd e si srotola stancamente fra prese di distanza delle associazioni riconosciute e altrimenti impegnate nella tutela e promozione dei diritti civili ed umani.
Così i mezzi di comunicazione non ne parlano.
A differenza di quanto accaduto costantemente negli anni scorsi nel numero di dicembre anche il periodico Ho un sogno ha scelto di tacerne .
Che doveva scrivere: che l’emendamento presentato dal consigliere Honsell al consiglio regionale del FVG è stato respinto?
Nel blog Diariealtro lo si può leggere in data 7 dicembre con il link
7 dicembre 2021 – In consiglio regionale si chiacchiera di famiglia
Comunque nel numero di dicembre Ho un Sogno pubblica una riflessione importante che offre il quadro giuridico e filosofico per collocare correttamente il problema della registrazione anagrafica negata.
Perciò lo trascrivo.
SOLIDARIETÀ
La parola solidarietà ci sollecita subito considerazioni di carattere morale. Non è immediato quasi per nessuno associarla al diritto. In altre parole, quasi nessuno pensa che la solidarietà sia un dovere, ossia un comportamento sostenuto dalla forza della legge. Anzi, a ragionare in questo modo sembra di trovarsi dinanzi a un controsenso. Infatti, avendo in mente la sua accezione morale, è piuttosto difficile disgiungerla dalla libertà di scegliere se assumere o meno un atteggiamento solidale nei rapporti con gli altri.
Eppure, la nostra Costituzione è chiara al riguardo, quando all’articolo 2 parla di «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Quindi non solo doveri, ma addirittura inderogabili, cioè doveri che nessuno ha il potere di cancellare in alcun modo. Doveri che caratterizzano trasversalmente tutto il nostro vivere collettivo, come ci ricordano i tre aggettivi, “politica, economica e sociale”. In alcune sue pronunce, la Corte costituzionale si spinge ancora oltre: ne fa una precondizione per la piena esplicazione della personalità individuale.
In altre parole, secondo la Consulta, la solidarietà è in grado di produrre lo spazio sociale necessario per consentire a ogni persona di realizzarsi nelle proprie relazioni.
Stefano Rodotà ce ne ha parlato in un libro dal titolo “Solidarietà: un’utopia necessaria” (Laterza, 2014). Fin dalle primissime pagine del volume, della solidarietà si dice che è un principio «volto a scardinare barriere, a congiungere, a esigere quasi il riconoscimento reciproco e così a permettere la costruzione di legami sociali nella dimensione propria dell’universalismo». Come tutti i principi giuridici, si tratta di una regola peculiare, perché il legislatore si limita a indicarci un obiettivo senza precisare come concretamente dobbiamo comportarci per raggiungerlo. Dunque, viene spontaneo chiedersi quale sia il fine del principio della solidarietà. Possiamo rispondere, sempre con le parole di Rodotà: uno degli elementi costitutivi della solidarietà «è la finalità dell’inclusione, che porta con sé anche l’ineliminabile attitudine cooperativa con altre persone».
La nostra Costituzione non poteva che partire dalla dimensione collettiva della solidarietà nel momento stesso in cui fondava uno Stato sociale. Quanto di questa visione è ancora presente nella nostra organizzazione sociale? Quanto le nostre politiche sociali sono effettivamente sulle nostre scelte quotidiane la consapevolezza di far parte di una collettività? Se si riuscisse a cogliere l’imprescindibilità del principio di solidarietà per la piena attuazione della legalità costituzionale, probabilmente dovremmo rivedere il contenuto di molte regole e di molti nostri comportamenti.
A ben pensarci, potrebbe essere uno dei tanti modi per cominciare a superare la cultura neoliberale che ci sta soffocando.
Francesco Bilotta Docente di diritto privato, Università di Udine