7 settembre 2014 – Ricevo da Bruno Segre

 

A Gaza l’operazione “Margine di protezione” era in corso ormai da alcune settimane quando alla comunità ebraica nord-americana venne indirizzata una lettera aperta, sottoscritta da 309 israeliani che attualmente risiedono negli USA.
Propongo alla vostra lettura questo testo, del quale ho eseguito la traduzione integrale in italiano. I firmatari  costituiscono il nucleo originario di un gruppo che si denomina “Israelis for a Sustainable Future”.
Ecco qui di seguito il testo.
Bruno Segre

Una lettera aperta agli ebrei americani

Siamo un gruppo di israeliani viventi attualmente negli Stati Uniti.  Ci rivolgiamo a voi in quanto ci opponiamo agli atti compiuti dal governo israeliano nel contesto dell’operazione “Margine di protezione”.

Ciò non significa che non riconosciamo la minaccia che Hamas costituisce per il popolo israeliano. Ci opponiamo a che vengano usate armi là dove vive la popolazione civile e denunciamo il sacrificio di civili da parte sia del regime di Hamas sia del governo d’Israele. Se richiediamo che cessi il bombardamento di Gaza, ciò non implica che non ci rendiamo conto delle condizioni impossibili in cui sono costretti a vivere gli israeliani che risiedono nella parte a sud del Paese. Né significa che non esigiamo per loro condizioni di sicurezza. Ma riconosciamo anche che dal governo d’Israele tale loro esigenza viene sistematicamente ignorata, salvo farla valere quando o governanti ritengano di trarne qualche vantaggio. In meno di sei anni abbiamo assistito a tre operazioni militari di grandi dimensioni; si tratta di operazioni che vengono riproposte  periodicamente perché sono infruttuose. D’accordo, per il momento le riserve di Hamas sono svuotate e le iniziative del movimento sono temporaneamente bloccate. Ma il prezzo morale richiesto per conseguire un tale risultato non valeva la pena che venisse pagato. E quand’anche ne fosse valsa la pena, sul lungo periodo l’uccisione di migliaia di civili e lo spostamento forzato di centinaia di migliaia di abitanti della Striscia non indeboliscono Hamas. Un simile bagno di sangue non fa che alimentare quell’unica risorsa di cui Hamas non può privarsi: l’odio. Solamente negoziati significativi di pace e la fine del regime di occupazione in Cisgiordania e a Gaza (il blocco è pur sempre una forma di occupazione) potranno prevenire la prossima salva di missili su Israele e la prossima serie di uccisioni indiscriminate a Gaza.

Ci rivolgiamo a voi perché desideriamo che si riconsideri che cosa significa essere favorevoli a Israele piuttosto che offrire un appoggio alla Palestina. Riteniamo che questi due termini debbano diventare un’unica e identica cosa. Siamo convinti che il sostenere che l’uno e l’altro popolo sono degni di godere di pari diritti sia il solo modo per dare vita a un Israele e a una Palestina migliori, e desideriamo che la comunità ebraica americana avalli questo nostro messaggio.

La convinzione che l’essere “favorevoli a Israele” significhi difendere acriticamente le azioni del governo e dell’esercito d’Israele non reca alcun aiuto al popolo israeliano. Il popolo israeliano non trae alcun vantaggio dall’essere oppressore.  Alla società israeliana non giova il governare su 4 milioni di palestinesi. Il soldato e la soldatessa israeliani non godono di alcun beneficio quando mettono a repentaglio la propria vita in guerre che potrebbero essere evitate.

Né alcun beneficio deriva al popolo d’Israele dal perpetuarsi del regime d’occupazione. I ragazzi israeliani non imparano nulla da chi insegna loro che tutto il mondo desidera ucciderli. E la popolazione d’Israele non acquista vigore con il coltivare l’aggressività, con l’alzare l’asticella dell’intolleranza e con l’accrescere il razzismo violento nei confronti dei concittadini palestinesi.

Ma proprio nella prosecuzione dell’occupazione sta il motivo che ha innescato la guerra ora in corso. Sfortunatamente il cinismo continua a crescere fra gli uomini e le donne che governano Israele: costoro sono disposti a sacrificare le vite di chiunque pur di conservare le loro posizioni di potere e di mantenere intatto il controllo sul popolo palestinese.

Siamo certi che la guerra in atto si sarebbe potuta evitare. Non crediamo che tutti i palestinesi ci vogliano uccidere. E siamo ben lieti di spiegare da dove stiamo venendo.

Riteniamo che un’informazione tendenziosa cerchi di far passare l’immagine di una simmetria che non esiste. Date un’occhiata alle cifre. Guardate le fotografie. Non è con il biasimare il coro internazionale delle critiche che  si riesce a rendere migliore l’immagine di Israele. La si può migliorare, tale immagine,  agendo in modo tale da far cessare le violazioni dei diritti umani. Ovviamente con questo nostro discorso non intendiamo essere indulgenti verso qualsiasi forma di antisemitismo, ma pensiamo che l’accantonare il nostro discorso facendolo passare per antisemita non giovi a nessuno.

Più che tutto, siamo convinti che il sangue è sangue, e che il sangue è uguale e di pari valore per tutti. E siamo ben consapevoli di ciò che avviene quando circola l’idea che le vite di un popolo valgano meno delle vite di altri popoli.

Per uscire dal ciclo della violenza, Israele ha bisogno del vostro sostegno.

Vi sollecitiamo a dire ai vostri leader che si sforzino di esaminare con occhio critico quelle politiche del governo israeliano dietro le quali essi si sogliono allineare. Vi chiediamo altresì di sostenere in Israele le voci moderate: forze che si trovano sempre più esposte ad attacchi da parte del loro stesso governo e dei mezzi israeliani di informazione, oltre a subire persino violenze fisiche per mano di vigilantes della destra. Vi incoraggiamo a scrivere ai vostri rappresentanti al Congresso perché condividano con voi la convinzione che Israele potrà garantirsi sicurezza e prosperità soltanto se smetterà di uccidere civili, rinuncerà definitivamente all’occupazione di Gaza e della Cisgiordania e garantirà libertà ed eguaglianza a tutti i suoi cittadini. Vi invitiamo ad avviare con noi un fruttuoso dialogo.

IFSF / Israelis for a Sustainable Future

Chi è Bruno Segre

Bruno Segre, storico e saggista, è nato a Lucerna nel 1930, ha studiato filosofia alla scuola di Antonio Banfi; si è occupato di sociologia della cooperazione e di educazione degli adulti nell’ambito del movimento Comunità fondato da Adriano Olivetti; ha insegnato in Svizzera dal 1964 al 1969; per oltre dieci anni ha fatto parte del Consiglio del “Centro di documentazione ebraica contemporanea” di Milano; per molti anni ha presieduto l’associazione italiana “Amici di Neve Shalom Wahat as-Salam”; nel quadro di un’intensa attività pubblicistica, ha dedicato contributi a vari aspetti e momenti della cultura e della storia degli ebrei; per anni ha diretto la prestigiosa rivista di vita e cultura ebraica “Keshet”. Tra le opere di Bruno Segre: Gli ebrei in Italia, Giuntina, Firenze 2001; Shoah, Il Saggiatore, Milano 1998, 2003

 

 

7 Settembre 2014Permalink

21 agosto 2014 – Un articolo di Desmond Tutu

L’Arcivescovo Emerito Desmond Tutu, in un articolo in esclusiva per Haaretz, ha lanciato un appello per un boicottaggio globale di Israele, chiedendo con urgenza a israeliani e palestinesi di essere migliori dei loro leader, nel cercare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa.

14 Agosto 2014 | 21:56 
Originale pubblicato su http://www.haaretz.com/opinion/1.610687 –
Traduzione realizzata dalla Comunità di Avaaz. 

Chi volesse collegarsi ad Avaaz può farlo anche da qui

Il mio appello al popolo di Israele: liberate voi stessi liberando la Palestina
di Desmond Tutu

Le scorse settimane hanno visto una mobilitazione senza precedenti della società civile di tutto il mondo contro l’ingiustizia e la brutalità della sproporzionata risposta israeliana al lancio di razzi dalla Palestina.

Se si contano tutte le persone che si sono radunate lo scorso fine settimana a Città del Capo, a Washington DC, a New York, a Nuova Delhi, a Londra, a Dublino, a Sidney ed in tutte le altre città del mondo per chiedere giustizia in Israele e Palestina, ci si rende subito conto che si tratta senza dubbio della più grande ondata di protesta di sempre dell’opinione pubblica riguardo ad una singola causa.

Circa venticinque anni fa, ho partecipato a diverse grandi manifestazioni contro l’apartheid. Non avrei mai immaginato che avremmo rivisto manifestazioni tanto numerose, ma sabato scorso a Città del Capo l’affluenza è stata uguale se non addirittura maggiore. C’erano giovani e anziani, musulmani, cristiani, ebrei, indù, buddisti, agnostici, atei, neri, bianchi, rossi e verdi… come ci si aspetterebbe da una nazione viva, tollerante e multiculturale.

Ho chiesto alla gente in piazza di unirsi al mio coro: “Noi ci opponiamo all’ingiustizia dell’occupazione illegale della Palestina. Noi ci opponiamo alle uccisioni indiscriminate a Gaza. Noi ci opponiamo all’indegno trattamento dei palestinesi ai checkpoint e ai posti di blocco. Noi ci opponiamo alla violenza da chiunque sia perpetrata. Ma non ci opponiamo agli ebrei.”

Pochi giorni fa, ho chiesto all’Unione Internazionale degli Architetti, che teneva il proprio convegno in Sud Africa, di sospendere Israele dalla qualità di Paese membro.

Ho pregato le sorelle e i fratelli Israeliani presenti alla conferenza di prendere le distanze, sia personalmente che nel loro lavoro, da progetti e infrastrutture usati per perpetuare un’ingiustizia. Infrastrutture come il muro, i terminal di sicurezza, i posti di blocco e gli insediamenti costruiti sui territori Palestinesi occupati.

Ho detto loro: “Quando tornate a casa portate questo messaggio: invertite la marea di violenza e di odio unendovi al movimento nonviolento, per portare giustizia a tutti gli abitanti della regione”.

In poche settimane, più di 1 milione e 600mila persone in tutto il mondo hanno aderito alla campagna lanciata da Avaaz chiedendo alle multinazionali che traggono i propri profitti dall’occupazione della Palestina da parte di Israele e/o che sono coinvolte nell’azione di violenza e repressione dei Palestinesi, di ritirarsi da questa attività. La campagna è rivolta nello specifico a ABP (fondi pensionistici olandesi); a Barclays Bank; alla fornitura di sistemi di sicurezza (G4S), alla francese Veolia (trasporti); alla Hewlwtt-Packard (computer) e alla Caterpillar (fornitrice di Bulldozer).

Il mese scorso 17 governi della UE hanno raccomandato ai loro cittadini di astenersi dal fare affari o investimenti negli insediamenti illegali israeliani.

Abbiamo recentemente assistito al ritiro da banche israeliane di decine di milioni di euro da parte del fondo pensione olandese PGGM e al ritiro da G4S della Fondazione Bill e Melinda Gates; e la Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti ha ritirato una cifra stimata in 21 milioni dollari da HP, Motorola Solutions e Caterpillar.

Questo movimento sta prendendo piede.

La violenza genera solo violenza ed odio, che generano ancora più violenza e più odio.

Noi sudafricani conosciamo la violenza e l’odio. Conosciamo la pena che comporta l’essere considerati la puzzola del mondo, quando sembra che nessuno ti comprenda o sia minimamente interessato ad ascoltare il tuo punto di vista. È da qui che veniamo.

Ma conosciamo anche bene i benefici che sono derivati dal dialogo tra i nostri leader, quando organizzazioni etichettate come “terroriste” furono reintegrate ed i loro capi, tra cui Nelson Mandela, liberati dalla prigione, dal bando e dall’esilio.

Sappiamo che, quando i nostri leader cominciarono a parlarsi, la logica della violenza che aveva distrutto la nostra società si è dissipata ed è scomparsa. Gli atti di terrorismo iniziati con i negoziati, quali attachi ad una chiesa o ad un pub, furono quasi universalmente condannati ed i partiti responsabili furono snobbati alle elezioni.

L’euforia che seguì il nostro votare assieme per la prima volta non fu solo dei sudafricani neri. Il vero trionfo della riappacificazione fu che tutti si sentirono inclusi. E dopo, quando approvammo una costituzione così tollerante, compassionevole e inclusiva che avrebbe reso orgoglioso anche Dio, tutti ci siamo sentiti librerati.

Certo, avere un gruppo di leader straordinari ha aiutato.

Ma ciò che alla fine costrinse questi leader a sedersi attorno al tavolo delle trattative fu l’insieme di strumenti persuasivi e non violenti messi in pratica per isolare il Sudafrica economicamente, accademicamente, culturalmente e psicologicamente.

A un certo punto – il punto di svolta – il governo di allora si rese conto che preservare l’apartheid aveva un costo superiore ai suoi benefici.

L’interruzione, negli anni ’80, degli scambi commerciali con il Sud Africa da parte di aziende multinazionali dotate di coscienza, è stata alla fine una delle azioni chiave che ha messo in ginocchio l’apartheid, senza spargimenti di sangue. Quelle multinazionali avevano compreso che, sostenendo l’economia del Sud Africa, stavano contribuendo al mantenimento di uno status quo ingiusto.

Quelli che continuano a fare affari con Israele, che contribuiscono a sostenere un certo senso di “normalità” nella società Israeliana, stanno arrecando un danno sia agli israeliani che ai palestinesi. Stanno contribuendo a uno stato delle cose profondamente ingiusto.

Quanti contribuiscono al temporaneo isolamento di Israele, dichiarano così che Israeliani e Palestinesi in eguale misura hanno diritto a dignità e pace.

In sostanza, gli eventi accaduti a Gaza nell’ultimo mese circa stanno mettendo alla prova chi crede nel valore degli esseri umani.

È sempre più evidente il fallimento dei politici e dei diplomatici nel fornire risposte e che la responsabilità di negoziare una soluzione sostenibile alla crisi in Terra Santa ricade sulla società civile e sugli stessi abitanti di Israele e Palestina.

Oltre che per le recenti devastazioni a Gaza, tante bellissime persone in tutto il pianeta – compresi molti Israeliani – sono profondamente disturbate dalle quotidiane violazioni della dignità umana e della libertà di movimento cui i Palestinesi sono soggetti a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Inoltre, la politica Israeliana di occupazione illegale e di costruzione di insediamenti cuscinetto in una terra occupata aggrava la difficoltà di raggiungere in futuro un accordo che sia accettabile per tutti.

Lo stato di Israele si sta comportando come se non ci fosse un domani. Il suo popolo non potrà avere la vita tranquilla e sicura che vuole – e a cui ha diritto – finché i suoi leader continueranno a mantenere le condizioni che provocano il conflitto.

Io ho condannato quanti in Palestina sono responsabili dei lanci di missili e razzi contro Israele. Soffiano sulle fiamme dell’odio. Io sono contrario ad ogni manifestazione di violenza.

Ma dobbiamo essere chiari che il popolo palestinese ha ogni diritto di lottare per la sua dignità e libertà. È una lotta che ha il sostegno di molte persone in tutto il mondo.

Nessuno dei problemi creato dagli esseri umani è irrisolvibile, quando gli esseri umani stessi si impegnano a risolverlo con il desiderio sincero di volerlo superare. Nessuna pace è impossibile quando la gente è determinata a raggiungerla.

La Pace richiede che israeliani e palestinesi riconoscano l’essere umano in loro stessi e nell’altro, che riconoscano la reciproca interdipendenza.

Missili, bombe e insulti non sono parte della soluzione. Non esiste una soluzione militare.

È più probabile che la soluzione arrivi dallo strumento nonviolento che abbiamo sviluppato in Sud Africa negli anni ’80, per persuadere il governo della necessità di modificare la propria linea politica.

Il motivo per cui questi strumenti – boicottaggio, sanzioni e disinvestimenti – si rivelarono efficaci, sta nel fatto che avevano una massa critica a loro sostegno, sia dentro che fuori dal Paese. Lo stesso tipo di sostegno di cui siamo stati testimoni, nelle utlime settimane, a favore della Palestina.

Il mio appello al popolo di Israele è di guardare oltre il momento, di guardare oltre la rabbia nel sentirsi perennemente sotto assedio, nel vedere un mondo nel quale Israele e Palestina possano coesistere – un mondo nel quale regnino dignità e rispetto reciproci.

Ciò richiede un cambio di prospettiva. Un cambio di mentalità che riconosca come tentare di perpetuare l’attuale status quo equivalga a condannare le generazioni future alla violenza e all’insicurezza. Un cambio di mentalità che ponga fine al considerare ogni legittima critica alle politiche dello Stato come un attacco al Giudaismo. Un cambio di mentalità che cominci in casa e trabocchi fuori di essa, nelle comunità, nelle nazioni e nelle regioni che la Diaspora ha toccato in tutto il mondo. L’unico mondo che abbiamo e condividiamo.

Le persone unite nel perseguimento di una causa giusta sono inarrestabili. Dio non interferisce nelle faccende della gente, ha fiducia nel fatto che noi cresceremo ed impareremo risolvendo le nostre difficoltà e superando le nostre divergenze da soli. Ma Dio non dorme. Le Scritture Ebraiche ci dicono che Dio è schierato dalla parte del debole, dalla parte di chi è senza casa, della vedova, dell’orfano, dalla parte dello straniero che libera gli schiavi nell’esodo verso la Terra Promessa. Fu il profeta Amos che disse che dobbiamo lasciar scorrere la giustizia come un fiume.

La giustizia prevarrà alla fine. L’obiettivo della libertà del popolo palestinese dall’umiliazione e dalle politiche di Israele è una causa giusta. È una causa che lo stesso popolo di Israele dovrebbe sostenere.

Nelson Mandela disse che i Sudafricani non si sarebbero potuti sentire liberi finché anche i Palestinesi non lo fossero stati.
Avrebbe potuto aggiungere che la liberazione della Palestina libererà anche Israele.

21 Agosto 2014Permalink

8 agosto 2014 – La voce di pace di Samer da Jenin agli USA attraverso Verona – 3

 

2009- 2014 Una storia che non si è interrotta

Ieri ho ricordato che durante l’operazione “piombo fuso” del 2009, a differenza dei suoi amici che dialogavano in una pagina facebook riservata, Samer taceva e Marco era preoccupato.
Sapendolo a studiare nell’Illinois gli scrisse ed ecco la risposta di Samer.

“Ciao Marco. ti ringrazio per la tua solidarietà … La situazione è molto frustrante e mi auguro che possa cambiare, oggi sono stato fortemente turbato: mentre guardavo la televisione, ho visto uno dei miei amici israeliani che aveva partecipato con me al campo per la pace organizzato in Austria fra ragazzi israeliani e palestinesi… il mio amico è ora un soldato israeliano nell’esercito, e mi ha scioccato quando l’ho visto con altri 2 soldati sulla cima di un carro armato mentre lanciava razzi verso Gaza. Non posso credere che uno dei miei amici sia diventato un criminale … Egli non era così … Mi sento come se qualcuno mi avesse pugnalato con un coltello … Come può un amico che ha creduto nella pace diventare oggi un criminale ed essere coinvolto in un massacro, un crimine in cui centinaia di bambini e civili sono stati uccisi? Come, non riesco a capire … al vedere il mio vecchio amico uccidere il mio popolo mi si spezza il cuore … Non ho niente da dire .. Posso solo pregare che questo si possa fermare, è così doloroso per me vedere i miei amici morti e il bombardamento di Gaza, e poi anche vedere i miei vecchi amici di Israele diventare mostri e criminali di guerra … Prego affinché questo si arresti immediatamente”

Successivamente non mancò di rivolgersi anche ai suoi amici che discutevano sulla pagina di facebook.

Cari tutti, palestinesi e israeliani,
sono molto frustrato vedendo quel che accade oggi a Gaza, ma, quando leggo i post su Facebook, sono anche deluso.
In queste discussioni ho letto parole di rabbia e biasimo, giudizi e talvolta  vi ho trovato anche un linguaggio inappropriato. Noi come gruppo, tutti noi. un giorno abbiamo detto che ci impegnavamo per la pace e a vivere con i nostri vicini, Giusto?
Ma cosa accade oggi? Mi rendo conto che entrambe le parti seguono coloro che pensano di risolvere i problemi con la violenza, assassini, stragi e persino sparando missili. In queste discussioni vedo che gli studenti israeliani tentano di giustificare una guerra brutale e sproporzionata e i crimini contro l’umanità che l’esercito del loro paese commette a Gaza.
Allo stesso tempo i Palestinesi considerano quello che gli israeliani fanno al loro popolo e cercano di giustificare il comportamento di Hamas e i missili che vengono lanciati contro il territorio di Israele, atti anche questi di violenza.
Noi sappiamo che queste azioni sono sbagliate e disumane; e allora perché cerchiamo di giustificarle? La mia anima piange quando sento tutto ciò.
Perché cerchiamo di giustificare la violenza quando ci eravamo trovati d’accordo sul fatto che la violenza non ci porterà pace? Perché parliamo come hanno fatto oggi i leader di Hamas o il portavoce dell’esercito israeliano? Perché usiamo il loro linguaggio quando eravamo d’accordo sul fatto  che quelle persone non avrebbero risolto la situazione per noi?
Perché?
Ai miei amici israeliani: l’attacco del vostro esercito a Gaza, che ancora non ha avuto successo, non vi porterà sicurezza.
Pensate di poter cancellare con la forza un partito politico come Hamas che è sostenuto da un milione e mezzo di persone? Se Israele vuole la pace non deve fare tutto questo.
Gli attacchi su Gaza terrorizzano i civili e li caricano di odio e ostilità verso Israele. Quale il risultato di questo attacco? Hamas é ancora là e le persone che vorrebbero attaccare Israele ora sono più numerose di prima. Quando terrorizzate i civili diffondete l’odio fra loro. Oggi Israele minaccia la pace; Israele fa male a se stessa e pianta semi di odio in almeno due future generazioni.
Ai miei amici palestinesi: io so che quando un popolo é sotto attacchi selvaggi e ripugnanti reagisce, e sappiamo che reagire é naturale.
E’ naturale cercare di vendicarsi e procurare danno a coloro che stanno mandando i loro figli a ridurre la nostra vita a qualche cosa di miserabile, a coloro che hanno eletto un governo che dispiega eserciti numerosi per distruggerci ora e in futuro. Bisogna aspettarsi la reazione. Ma ora fermiamoci e poniamoci una domanda. Quale aiuto possono darci i razzi (o i fuochi d’artificio) che Hamas lancia contro Israele? Questi razzi hanno ucciso circa una dozzina di israeliani in cinque anni e non hanno cambiato nulla per noi. Come possono migliorare la situazione? Quei razzi convinceranno gli Israeliani a scegliere un governo più brutale che possa fermare Hamas con la violenza. Ciò significa che gli israeliani eleggeranno un governo più estremista che farà crescere sempre più la disperazione dei Palestinesi.
A entrambe le parti dico: per favore smettete di difendere coloro che credono nella violenza e agiscono secondo questo convincimento, smettete di far sì che le loro azioni sembrino accettabili perché non lo sono. Noi abbiamo un diverso modo di pensare, non dovremmo lasciare che la loro propaganda ci  guidi.
Come persone che da entrambe le parti credono nella pace pensiamo a un modo migliore per reagire alla sofferenza del nostro popolo.
Per esempio che cosa possono fare gli attivisti per la pace da entrambe le parti per fermare tutto questo disastro e questo caos, questa sproporzionata guerra di vendetta e rappresaglia? Tutti noi in questo gruppo dovremmo essere impegnati a discutere e trovare una risposta a questa domanda.
Dovremmo cominciare a pensare a ciò che noi – le persone che credono nella pace- possiamo fare per fermare tutta questa violenza e queste uccisioni..
E’ tempo per tutti noi di riconoscere di nuovo che chi agisce con violenza, non importa a quale parte appartenga, ha torto e da qui cominciare a considerare ciò che siamo in grado di fare.
Pregate per la pace      Samer
Pray for peace, להתפלל לשלום, صلوا من أجل السلام, Pregare per la pace !

 Ho trovato anche il mio commento di allora (ma ci tornerò perché anche oggi ho qualche cosa che desidero dire).
Samer, nello sforzo di capire e di considerare l’altro interlocutore con cui costruire e non nemico da distruggere, ci offre la dimensione  potenziale di Fiori di pace, come originariamente pensato da Confronti. Un’indicazione che ha purtroppo poco ascolto.
Samer, nel quadro di un forte richiamo alla responsabilità personale, conclude con un richiamo alla preghiera e lo scrive in inglese, in ebraico, in arabo e in italiano, riconoscendosi evidentemente in un unico Dio, che non frantuma in linguaggi che vogliono escludersi l’un l’altro
E tanto esclude l’uso politico delle religioni, così devastante e così praticato, oggi e nella nostra storia.

Non solo parole – Una candela

Inoltre Samer volle coinvolgere il campus universitario e la città in cui viveva.
Cos’ la sua iniziativa venne allora fatta conoscere ai suoi amici veronesi

NEL BRACCIO DELLA MORTE
1300 persone sono state uccise –
400 bambini sono stati massacrati a Gaza in 3 settimane
Il 26 gennaio alle ore 19.30 Samer presenterà una riflessione sul conflitto ed inviterà i partecipanti ad accendere una candela per ciascuno dei bambini uccisi. Anche se non  possiamo partecipare di persona chiunque può farlo segnalando la sua solidarietà iscrivendosi all’evento su Facebook accendendo una candela nella propria casa. 

Ricordo che allora accesi anch’io la mia solitaria candela

Non so cosa abbia fatto Samer nel corso di questi cinque anni.
Ma il suo messaggio, che ho pubblicato il 5 agosto scorso, ci dice che il percorso aperto tanti anni fa non si è chiuso.
continua e fa seguito al pezzo precedente del 5 e del 7 agosto


8 Agosto 2014Permalink

7 agosto 2014 – La voce di pace di Samer da Jenin agli USA attraverso Verona –2

 

E venne piombo fuso

Gli incontri fra ragazzi israeliani e palestinesi (di cui ho scritto il 5 agosto, ospiti in Italia per  un paio di settimane con la supervisione dei loro educatori e in particolare di Mostafà Qossoqsi, uno psicologo di Nazaret) avevano  trovato un importante riferimento a Verona, dove ldisponibilità ed entusiasmo di chi organizzava l’accoglienza assicuravano condizioni ottimali per il loro soggiorno.
Ragazzi nei loro paesi obbligati a considerarsi nemici, resi inavvicinabili l’uno all’altro da un confine invalicabile, a Verona trovavano un ambiente preparato ad accoglierli.
I ragazzi della scuola che li ospitava erano informati sulla situazione israelo   palestinese, il che li rendeva collaboratori consapevoli del progetto.
Ma nel 2009 accadde qualche cosa che introdusse un drammatico elemento di novità nel clima così sapientemente creato.
Era l’anno della campagna militare ‘piombo fuso’ (Gaza 27 dicembre 2008 – 18 gennaio 2009) finalizzata a neutralizzare i missili che Hamas lanciava contro le città del sud di Israele.
Nella precedente puntata del mio racconto ho reso disponibile la registrazione dell’intervista di Lucia Cuocci, girata nel 2007..
Ne erano protagonisti il palestinese Samer e l’israeliano Liron.
Ne ripeto il riferimento   http://www.arcoiris.tv/scheda/it/9577/
Ora lascio la parola alla relazione di Marco Menin, coordinatore veronese del progetto, che fortunatamente ho conservato.

Fiori di Pace alla prova della guerra.

«Da alcuni anni (il primo dei 5 gruppi finora ospitato a Verona è stato nella nostra città nell’ottobre 2005) siamo impegnati ad offrire a ragazzi israeliano e palestinesi l’opportunità di un incontro impossibile nella loro terra, attraverso il progetto Fiori di Pace.
 
I drammatici eventi di questi giorni hanno messo i “nostri” ragazzi di fronte ad una sfida inedita, mettendo a dura prova le relazioni che fra loro si sono sviluppate nel tempo: certamente è molto difficile sentirsi “amici” quando il nostro paese è sottoposto ad un attacco di cui anche il solo nome, “piombo fuso”, mostra con eloquenza gli obiettivi.

La sollecitazione è venuta da due ragazze israeliane, Maya e Shir, con un messaggio inviato agli amici del gruppo su Facebook che riunisce alcuni fra i ragazzi israeliani, palestinesi e italiani che hanno partecipato a Fiori di Pace: “Ciao a tutti voi… ciò che avviene a Gaza e l’entrata degli israeliani a Gaza ci rende davvero tristi e crediamo che questo sia il luogo migliore per comprendere le ragioni dell’altra parte.
È davvero importante per noi che voi possiate ricordare le discussioni che abbiamo avuto in Italia, e speriamo anche che possiate tentare di capirci, perché noi stiamo tentando di capire voi.
Crediamo che anche se è triste che siano uccisi dei civili, Israele non avesse altra scelta… e persino mentre Israele porta aiuti a Gaza loro continuano a bombardare Israele… Israele non può continuare così.
Vogliamo sapere cosa pensate di questo, e ci dispiace se qualcuno si sente offeso”.

Questa richiesta ha scatenato risposte polemiche e aspre, quanto le notizie che ci arrivavano sulle morti e le foto ed i filmati che riprendevano la distruzione (la discussione è riportata integralmente sul sito www.fioridipace.org). E mentre i ragazzi israeliani tentavano di comunicare la sofferenza di fronte a quella che percepiscono come una via senza altre uscite, i coetanei palestinesi rispondevano con rabbia, come Mohammed: “Maya, non puoi pensare a qualcosa che Israele non abbia ancora tentato? Bene, certamente non puoi farlo, sono sicuro che non c’è altra via che uccidere la gente a Gaza. Forse potrebbero colpirli con bombe nucleari??? E finirla del tutto con loro??? Mi chiedo come diavolo tu possa giustificare queste azioni!!! Intendo dire che se è sbagliato è sbagliato. In che modo quei civili che sono morti a Gaza potevano mettere in pericolo la pace e la sicurezza di Israele??? 300 esseri umani in tre giorni!!! Noi stiamo parlando di vite, anime!!! Non solo numeri!!! È incredibile! Qualunque cosa tu dica non cambierà mai il mio pensiero!!! È del tutto sbagliato!”.

Anche la posizione di Manal, ragazza Araba Israeliana, è molto sofferta. Quando viene accusata di non identificarsi con il paese dove vive, esprime tutta la sua fatica e contraddizione dell’essere cittadina di uno stato che sente come aggressore del suo popolo: “quando vedi oltre 300 persone morire in 4 giorni, e le fotografie dell’accaduto sono davvero dure da guardare, non credo vorresti identificarti con Israele, sebbene io viva qui. So che la gente di Sderot è spaventata dai razzi ma Hamas sta facendo questo a causa dell’insostenibile situazione a Gaza: non c’è abbastanza cibo, né medicine, né elettricità. Vorresti tu vivere in questa condizione?”

Certamente da parte di molti prevale la ripetizione acritica delle posizioni politiche di parte. Per qualcuno fra gli israeliani le idee sono molto chiare e nette: “Dite cose senza senso!!! Parlate di Gaza? Degli attacchi dell’esercito? E cosa dite degli attacchi di Hamas? Ashkelon? Ashdod? Della gente che passa tutto il giorno nei rifugi, da anni? Voi dite sempre che Israele è colpevole e Israele doveva e Israele tutto! E questa è la prima volta che Israele attacca!!!”.

Però quello che è stupefacente è la volontà di comunicare comunque: anche se in tutti c’è la consapevolezza che non può essere una discussione su Facebook a risolvere un intricato problema politico, c’è grande in tutti la volontà di far comprendere all’altro il proprio punto di vista, e di tentare di comprendere a loro volta. Senza rinnegare le proprie idee, ma senza neppure rinunciare al confronto.
E così Itai, diciassettenne israeliano, dopo aver ribadito la sua convinzione che il governo israeliano non avesse altra scelta per garantire la sicurezza della sua popolazione, ha riflettuto sulla possibilità di scelta che è invece possibile per le persone da ambo le parti: “La “regola” per questa scelta è che almeno una persona dall’altra parte ti stia ascoltando. Questa scelta è ascoltare e rispettare questa “persona dall’altra parte” per un grande obiettivo: comprendersi. Cercare di capire perché è così arrabbiato o perché è così triste, prudente o felice. Comprendere è qualcosa di grande e piccolo, e non è così facile, perché nessuno che viva “dall’altra parte” può davvero comprendere cosa significhi attendere ore e ore ai checkpoint o convivere con la paura dei soldati, oppure quali siano i sentimenti di una madre che lascia i suoi figli andare alle armi, o un uomo che piange mentre suona l’allarme missilistico…

Credo che in questo si possa leggere la grandezza del percorso che stanno seguendo questi ragazzi: anche in una situazione di conflitto acceso e drammatico, che porta a serrare le file per respingere l’idea stessa che il nemico possa avere delle ragioni, ostinarsi a voler mantenere aperto un canale di comprensione ascoltando le opinioni dell’altro, perfino quando accendono un fuoco, nella convinzione che comunque l’altro è una persona, con i suoi sogni, desideri, passioni, errori».

Il nostro Samer però taceva.

continua e fa seguito al pezzo precedente del 5 agosto

7 Agosto 2014Permalink

6 agosto 2014 – Il ricordo di Hiroshima e un articolo importante

 

 

69 anni fa Hiroshima.

Certamente nel 1945 l’opinione pubblica non poteva sapere cosa significasse Hiroshima.
Oggi sa che quella strage non ha portato pace.

Bauman: “Gaza è diventata un ghetto, Israele con l’apartheid non costruirà mai la pace”    di Antonello Guerrera

Trascrivo – interrompendo per un  momento la storia di Samer – un importante articolo del grande sociologo polacco,  Si può leggere anche da qui

05 agosto 2014

Zygmunt Bauman “Ciò a cui stiamo assistendo oggi è uno spettacolo triste: i discendenti delle vittime dei ghetti nazisti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un altro ghetto “. A dirlo non è un palestinese furioso, ma Zygmunt Bauman, uno dei massimi intellettuali contemporanei, di famiglia ebraica e sfuggito all’Olocausto ordito da Hitler grazie a una tempestiva fuga in Urss nel 1939.

Bauman ha 88 anni, suo padre era un granitico sionista e negli anni ha sviscerato come pochi l’aberrazione e le conseguenze della Shoah. Sinora il grande studioso polacco non si era voluto esprimere pubblicamente sulla recrudescenza dell’abissale conflitto israelo-palestinese. Ora però, dopo aver accennato alla questione qualche giorno fa al Futura Festival di Civitanova Marche in un incontro organizzato da Massimo Arcangeli, Bauman confessa la sua amarezza in quest’intervista a Repubblica.

Professor Bauman, lei è uno dei più grandi intellettuali contemporanei ed è di origini ebraiche. Qual è stata la sua reazione all’offensiva israeliana a Gaza, che sinora ha provocato quasi 2mila morti, molti dei quali civili?
“Che non rappresenta niente di nuovo. Sta succedendo ciò che era stato ampiamente previsto. Per molti anni israeliani e palestinesi hanno vissuto su un campo minato, in procinto di esplodere, anche se non sappiamo mai quando. Nel caso del conflitto israelo-palestinese è stata la pratica dell’apartheid  –  nei termini di separazione territoriale esacerbata dal rifiuto al dialogo, sostituito dalle armi  –  che ha sedimentato e attizzato questa situazione esplosiva. Come ha scritto lo studioso Göran Rosenberg sul quotidiano svedese Expressen l’8 luglio, prima dell’invasione di Gaza, Israele pratica l’apartheid ricorrendo a “due sistemi giudiziari palesemente differenti: uno per i coloni israeliani illegali e un altro per i palestinesi ‘fuorilegge’. Del resto, quando l’esercito israeliano ha creduto di aver identificato alcuni sospetti palestinesi (nella caccia ai responsabili dell’omicidio dei tre adolescenti israeliani rapiti in Cisgiordania il giugno scorso, ndr), ha messo a ferro e fuoco le case dei loro genitori. Invece, quando i sospettati erano ebrei (per il susseguente caso del ragazzino palestinese arso vivo, ndr) non è successo nulla di tutto questo. Questa è apartheid: una giustizia che cambia in base alle persone. Per non parlare dei territori e delle strade riservate solo a pochi”. E io aggiungo: i governanti israeliani insistono, giustamente, sul diritto del proprio paese di vivere in sicurezza. Ma il loro tragico errore risiede nel fatto che concedono quel diritto solo a una parte della popolazione del territorio che controllano, negandolo agli altri”.

Come anche lei sottolinea, tuttavia, Israele deve difendere la sua esistenza minacciata da Hamas. C’è chi, come gli Usa, dice che la reazione dello Stato ebraico su Gaza è dura ma necessaria. Chi la giudica eccessiva e “sproporzionata”. Lei che ne pensa?
“E come sarebbe una reazione violenta “proporzionata”? La violenza frena la violenza come la benzina sul fuoco. Chi commette violenza, da entrambe le parti, condivide l’impegno di non spegnere l’incendio. Eppure, la saggezza popolare (quando non è accecata dalle passioni) ci ricorda: “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Questa è la logica della vendetta, non della coabitazione. Delle armi, non del dialogo. In maniera più o meno esplicita, a entrambe le parti del conflitto fa comodo la violenza dell’avversario per rinvigorire le proprie posizioni. E il risultato è: sia Hamas sia il governo israeliano, avendo concordato che la violenza è il solo rimedio alla violenza, sostengono che il dialogo sia inutile. Ironicamente, ma anche drammaticamente, potrebbero avere entrambi ragione”.

Cosa pensa, nello specifico, del premier israeliano Netanyahu e del suo governo? Ha commesso errori?
“Netanyahu e i suoi sodali, e ancor più gli israeliani che bramano il loro posto, si sforzano di fomentare il desiderio di vendetta nei loro avversari. Spargono semi di odio perché temono che l’odio del passato scemi. Alla luce della loro strategia, questi non sono “errori”. I governanti israeliani hanno più paura della pace che della guerra. Del resto, non hanno mai imparato l’arte di governare in contesti pacifici. E, negli anni, sono riusciti a contaminare gran parte di Israele con il loro approccio. L’insicurezza è il loro migliore, e forse unico, vantaggio politico. E magari vinceranno facilmente le prossime elezioni facendo leva sulle paure degli israeliani e sull’odio dei vicini, che hanno fatto di tutto per irrobustire”.

Lei in passato è stato critico nei confronti del sionismo e dell’uso che Israele fa della tragedia dell’Olocausto per giustificare le sue offensive militari. La pensa ancora così?
“Raramente la vittimizzazione nobilita le sue vittime. Anzi, quasi mai. Troppo spesso, invece, provoca un’unica arte, che è quella del sentirsi perseguitati. Israele, nato dopo lo sterminio nazista contro gli ebrei, non è un’eccezione. Quello a cui siamo di fronte oggi è un triste spettacolo: i discendenti delle vittime nei ghetti cercano di trasformare la striscia di Gaza in un ghetto che sfiora la perfezione (accesso bloccato in entrata e uscita, povertà, limitazioni). Facendo sì che qualcuno prenda il loro testimone in futuro”.

A questo proposito, cosa pensa del silenzio di politici e intellettuali europei sul conflitto riesploso a Gaza?
“Innanzitutto, non esiste la “comunità internazionale” di cui parlano americani ed europei. In gioco, ci sono soltanto coalizioni estemporanee, dettate da interessi particolari. In secondo luogo, come ha osservato Ivan Krastev celebrando il centenario dell’inizio della Grande Guerra, noi europei abbiamo ben in mente che “un’eccessiva” reazione come quella all’omicidio di Francesco Ferdinando ha portato alla catastrofe “che nessuno voleva o si aspettava””.

Lei ha scritto in passato che la società moderna non ha imparato l’agghiacciante lezione dell’Olocausto. Questo concetto si può applicare anche al conflitto israelopalestinese?
“Le lezioni dell’Olocausto sono tante. Ma pochissime di loro sono state seriamente prese in considerazione. E ancor meno sono state apprese  –  per non parlare di quelle messe realmente in pratica. La più importante di queste lezioni è: l’Olocausto è la prova inquietante di ciò che gli umani sono capaci di fare ad altri umani in nome dei propri interessi. Un’altra lezione è: non mettere un freno a questa capacità degli umani provoca tragedie, fisiche e/o morali. Questa lezione, nel nostro mondo veloce, globalizzato e irreversibilmente multicentrico, ricopre ancora un’importanza universale, applicabile a ogni antagonismo locale. Ma non c’è una soluzione a breve termine per lo stallo attuale. Coloro che pensano solo ad armarsi non hanno ancora imparato che dietro alle due categorie di “aggressori” e “vittime” della violenza c’è un’umanità condivisa. Né si accorgono che la prima vittima di chi esercita violenza è la propria umanità. Come ha scritto Asher Schechter su Haaretz, l’ultima ondata di violenza nell’area “ha fatto compiere a Israele un ulteriore passo verso quel torpore emotivo che si rifiuta di vedere ogni sofferenza che non sia la propria. E questo è dimostrato da una nuova, violenta retorica pubblica”.

 

6 Agosto 2014Permalink

5 agosto 2014 – La voce di pace di Samer da Jenin agli USA attraverso Verona – 1

Ho trovato su Facebook una nota di Marco Menin, di Verona che con il suo gruppo di ‘amici di Fiori di Pace’  ha promosso dal 2005 l’incontro fra ragazzi israeliani e palestinesi diffondendo così l’iniziativa ‘Fiori di pace’, che faceva e fa capo alla rivista Confronti
Chi volesse sapere di che si tratta può farlo da questo indirizzo che non riesco a collegare come link     http://www.arcoiris.tv/scheda/it/9577/

Così ha scritto Marco, proponendoci la voce di Samer, uno dei ragazzi  di Fiori di pace,
Un nostro grande amico, Samer Anabtawi, palestinese di Jenin strenuamente impegnato per la pace e il dialogo, attualmente negli USA per studio, ha postato una sua riflessione, che condividiamo in pieno e facciamo nostra, dopo averla tradotta
Prima di leggere le parole di Samer è forse opportuno conoscere la storia del suo percorso di pace (è possibile farlo anche da qui, guardando la registrazione dell’intervista curata dalla giornalista Lucia Cuocci)

Oggi Samer ci dice:

«Ho notato alcuni commenti e canti inquietanti pronunciati alle manifestazioni di solidarietà con Gaza. Tra questi, vi sono stati alcuni commenti contro gli israeliani, che li “invitano” a “tornare in Europa”, paragonandoli ad “animali” che dovrebbero essere condotti al “macello”.
Anche se queste sono voci marginali, lasciatemi essere chiaro: NON IN NOSTRO NOME!
Non ho vissuto la maggior parte della vita sotto un’occupazione violenta e brutale perché  un idiota venga ed equiparare la mia causa per la giustizia con orribile antisemitismo.
La mia lotta è per l’uguaglianza non per il razzismo.
A coloro che osano pronunciare insulti anti ebraici alle manifestazioni di solidarietà, dico di trovare un altro posto dove scaricare la loro spazzatura.
La mia gente sta soffrendo uno degli episodi più orrendi del terrorismo di stato per mano di Israele. Quando si deride la sofferenza degli Ebrei in Europa durante una manifestazione palestinese, prima di tutto si insultano .gli stessi Palestinesi che si pretende di rappresentare, in quanto la persecuzione degli Ebrei in Europa e la loro cacciata non erano molto diverse da quello che i palestinesi sperimentano oggi.
Dico a coloro che tentano di rubare la nostra sofferenza e contaminare la nostra causa con l’odio, non siete i benvenuti tra noi, non parlate per nessuno di noi. 
La nostra causa è la pace, la dignità, la libertà e la giustizia. Si tratta di una lotta per l’uguaglianza e la cittadinanza a pieno titolo con tutti i diritti politici e civili che ciò comporta. La nostra lotta per la giustizia non ha spazio per le vostre cause razziste di vedute limitate.
Invito ogni attivista, palestinese e non, presente alle nostre manifestazioni ad isolare queste voci e spingerle fuori da queste proteste. Gli antisemiti non ci appartengono, non sono fra noi»

Nel 2009 Samer ci diceva
Nei giorni della operazione ‘piombo fuso’ ho raccolto parecchio materiale (e l’ho custodito per fortuna) prodotto al momento e precedente…

alle prossime puntate

5 Agosto 2014Permalink

3 agosto 2014 – La voce fuori dal coro non si ferma

Oggi, nel corso della trasmissione di Radio tre Prima Pagina, una signora che già era intervenuta precedentemente  manifestando la sua intenzione di partecipare alla manifestazione indetta dai palestinesi della sua città per protestare contro il conflitto in corso a Gaza, ha riferito quanto avvenuto ieri
La registrazione di trova nel mio blog del 29 luglio e si può leggere qui

Per esprimerle la mi piena solidarietà e condivisione non posso che riportare le sue parole che trascrivo come pronunciate alla radio, riprendendole dal podcast della trasmissione stessa.

Maria Elena Klugmann: Buongiorno dr. Fontana. Sono Maria Elena Klugmann da Pordenone.

Giornalista Enrico Fontana: L’attendevo. Buongiorno, ci aggiorni allora

Maria Elena Klugmann: E’ mio dovere farle la relazione. Eravamo d’accordo così
Io sono andata alla manifestazione. E’ stata una settimana molto intensa. Devo dirle al verità: non pensavo di scatenare una bagarre di questo tipo.
Comunque la manifestazione si è svolta pacificamente. C’erano circa 150 persone.  Le uniche bandiere erano quelle palestinesi. C’erano bambini, famiglie e devo dire che, tranne alcuni accenni polemici nei confronti – chiaramente questa era la situazione – di Israele e dell’occupazione dei Territori, addirittura gli stessi organizzatori hanno pregato non ci fossero interventi in lingua araba e che non fossero comprensibili per gli italiani presenti e che non ci fossero momenti provocatori.

Giornalista Enrico Fontana: Prima di continuare nel racconto mi lasci ricordare a chi ci sta seguendo oggi che cosa è accaduto
Il giornalista riassume i precedenti di cui ho scritto in premessa
E’ iniziata una settimana particolare. Lei non si immaginava queste reazioni. Però dà anche l’idea di quanto bisogno ci sia di coraggio.  La pace ha bisogno di coraggio.

Maria Elena Klugmann: Il mio intervento è stato soprattutto per aprire un dialogo e questo l’ho detto, ho detto le stesse cose che ho detto a voi in trasmissione e poi in un’intervista – oltre che su La Repubblica su un quotidiano locale (il Messaggero Veneto)
Ho detto che ero lì per la pace e soprattutto di parlarne senza fanatismi, se possibile, lasciando la religione fuori da questo confronto e facendo sì che le politiche dello stato di Israele non siano confuse con il fatto di essere ebrei perché non necessariamente gli Ebrei sono d’accordo con le politiche di Israele.
E ho ricordato al grande necessità di conoscere la storia e le sofferenze di entrambi i popoli perché nonostante le diversità, i genocidi ve sono stati dall’una e dall’altra parte nel corso della storia.
In Palestina tuttora c’è questa terribile guerra che porta all’uccisione di civili innocenti e che soltanto parlandoci, confrontandoci e cercando di non rinfocolare le tensioni con  aspetti religiosi possiamo finalmente cercare un dialogo.
Questo è stato il mio intervento

Giornalista Enrico Fontana: La ringrazio davvero di cuore. Sono contento che la manifestazione a Pordenone al di là dei numeri abbia avuto questo significato.
Vale la pena davvero in tutte le occasioni possibili praticare questo dialogo, questo confronto.

Seguono altre considerazioni e nuovi (meritati) ringraziamenti alla signora Klugmann

3 Agosto 2014Permalink

30 luglio 2014 – Un testo dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane che voglio conservare

Confronti

Le reazioni delle società occidentali al rinnovato conflitto fra Israele e Hamas hanno introdotto un elemento inedito di cui credo bisognerà tenere conto nel prossimo futuro. Di certo sono allarmanti le manifestazioni di un rinnovato antisemitismo, che ha trasferito a tratti nelle strade di Parigi, di Londra o altrove lo scontro mediorientale. Non più solo antisemitismo occidentale, ma antisemitismo di masse islamiche europee che non fanno alcuna differenza fra ebrei e Israele, né probabilmente fra Israele e America e Occidente in generale. Ma non si tratta solo di questo. L’impressione è che quest’ultima guerra (che è di fatto limitata se paragonata a quelle precedenti) rappresenti un vero e proprio spartiacque nei rapporti fra la civiltà occidentale, Israele e il mondo ebraico.
Il terreno di confronto è duplice, ed è nel contempo storico e etico. In primo luogo vi è la questione della Shoah. Non importa se il nesso storico, politico e diplomatico fra nascita dello Stato di Israele e sterminio degli ebrei in Europa sia decisamente labile (è noto che le discussioni all’ONU sulla spartizione della Palestina avevano a che fare assai di più con i nuovi equilibri strategici della guerra fredda che non con i poveri morti di Auschwitz). Importa invece – e molto – la narrazione che di questo nesso emerge nel mondo occidentale e in Medio Oriente. E questa narrazione, condivisa ormai generalmente seppure manifestamente falsa, ci dice che Israele sarebbe nata come risarcimento agli ebrei voluto dall’Occidente per quel che era accaduto nei campi di sterminio, un atto di tardivo neocolonialismo compiuto a spese dei palestinesi. È con questa narrazione che dobbiamo fare i conti, e da questa dobbiamo partire se vogliamo capire nel profondo il nesso che viene indebitamente ma automaticamente stabilito fra la persecuzione degli ebrei da parte dei nazisti e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele. C’è da dire che Israele ci ha messo del suo: la trasformazione dello Yad Vashem, il museo dedicato allo sterminio degli ebrei in Europa, a luogo in cui viene proposta al mondo la Shoah come fondamenta morale su cui si basa il diritto di esistere dello stato d’Israele ha determinato un’accettazione sostanziale della narrazione di cui sopra. (NB: sarebbe interessante sapere da quando è iniziato l’uso di portare le delegazioni straniere a deporre corone di fiori nella sala dedicata ai sei milioni di morti della Shoah invece che – come si usa per esempio qui in Italia – sulla tomba del milite ignoto. Una svolta è prevista per il prossimo anno, quando verrà inaugurato il National Memorial sul Monte Herzl http://www.archilovers.com/projects/129830/national-memorial-on-mount-herzl.html ). È con queste premesse che la Shoah diventa un punto di riferimento dell’immaginario collettivo quando si scatenano le reazioni ai bombardamenti su Gaza, ed è da qui che prende le mosse quella che chiamerei una rapida “perdita di credito” da parte di Israele e dell’ebraismo tutto in rapporto all’eredità dello sterminio. In altre parole: se facciamo riferimento alla storia delle Memoria della Shoah, si è passati da un’iniziale indifferenza a una crescita progressiva di attenzione che ha conosciuto il suo apice negli anni immediatamente successivi all’istituzione della Giornata della Memoria. Per diversi anni da allora la Shoah è stata rappresentata come il centro della narrazione del secondo conflitto mondiale, e gli ebrei sono diventati una sorta di sacerdoti della memoria. In nome di quella memoria gli ebrei e le loro istituzioni hanno avuto per molto tempo un credito sul piano politico e intellettuale e una certa visibilità pubblica, che era del tutto funzionale e speculare alla necessità (pelosa) dei paesi e delle società occidentali di lavarsi la coscienza e liberarsi sul piano morale delle responsabilità di quanto avvenuto nel secondo conflitto mondiale. Ora però, complice la complicazione etica del conflitto a Gaza, quella visibilità e quel credito si vanno esaurendo. E qui veniamo al secondo corno della questione, appunto l’etica del conflitto. Non c’è dubbio che dal punto di vista militare (nell’ottica del breve conflitto con Hamas) la dinamica è chiara e sul piano morale si giustifica come guerra di difesa: aggressione missilistica e uso di scudi umani contro difesa antimissile e azioni di contenimento, almeno fino all’operazione di terra. Inutile ripetere quanto si legge da troppo tempo in tutte le salse sui social network. Tuttavia non c’è dubbio che non siamo autorizzati a ridurre tutto a quel che è avvenuto nelle ultime tre settimane. Alla base del conflitto c’è una dinamica oggettivamente ingiusta e punitiva che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi di Israele nei confronti della realtà palestinese. Una amministrazione militare non può governare per un tempo indefinito su un territorio senza commettere inevitabilmente gravi iniquità (gli stessi israeliani lo sanno bene, e i più vecchi hanno buona memoria di quel che era il Mandato britannico). Certo, la scarsa e dubbia levatura politica e morale della leadership palestinese non aiuta e non spinge nella direzione di aperture, ma oramai il livello dello scontro si è spostato sulle società nel loro complesso e non è più possibile fare affidamento sull’idea dello status quo. Le madri e le mogli delle centinaia di ragazzi morti (sotto i bombardamenti a Gaza, o con la divisa di militari in Israele) non accetteranno nel futuro altre risposte se non una decisa conclusione di definitive trattative di pace, con chiunque abbia poi la forza di farne rispettare le condizioni. È una strada a senso unico e con una scadenza ben precisa e molto ravvicinata. Sta a noi, a tutti noi, far sì che alla fine della strada ci siano due democrazie che si confrontano e si parlano (e l’opzione non è per nulla scontata visti i sintomi neofascisti che serpeggiano su entrambi i fronti), così come fanno già le due società, nonostante le bombe.

Gadi Luzzatto Voghera

(25 luglio 2014)

– See more at: http://moked.it/blog/2014/07/25/confronti-4/#sthash.RKlcS0Ty.P4lfyIrK.dpuf

Il grassetto nell’articolo è mio

30 Luglio 2014Permalink

29 luglio 2013 – Prima pagina e una voce fuori dal coro + un’altra voce il 30 luglio

La mattina alle 7.15 inizia una storica trasmissione di radio 3. Prima Pagina,  che – dopo 45’ di lettura dei giornali – passa a un filo telefonico diretto con gli ascoltatori.
Oggi è successo qualche cosa di molto importante. Ha telefonato una signora abitante a Pordenone, di cui spero di aver capito il nome e di averlo correttamente trascritto: Gluckman.
Non voglio commentare l’intervento perché è giusto parli da sé.
Alla fine il giornalista di turno – Enrico Fontana, direttore del quotidiano on line Paese sera – evidentemente emozionato (e anch’io lo ero) ha parlato di ‘testimonianza coraggiosa di civiltà’
Sono riuscita a scaricare il podcast della trasmissione e a trascrivere l’intervento della signora Gluckman così come l’ha pronunciato con tutte le caratteristiche di un parlato improvvisato..
Chiunque può risentirlo usando il podcast comunque lo trascrivo perché voglio conservarne memoria.
La trasmissione delle 10, Tutta la città ne parla, si è svolta muovendo da questa telefonata.

Filo diretto di Prima Pagina del 29/07/2014 (giornalista Enrico Fontana)

Mi chiamo Gluckman. Dico quel mio cognome che è il cognome di una famiglia ebrea laica che ha vissuto e vive in Italia dopo tutte le varie vicissitudini della Shoah. Io mi sento profondamente colpita appunto da quello che sta succedendo. Ma soprattutto come persona appartenente a una religione diversa. Perché questo? Perché gli ebrei vogliono la pace. Noi confondiamo sempre, lasciamo che ci sia questa confusione, [qualche parola confusa] fra Israele ed Ebrei.
Anche in Israele ci sono tantissimi ebrei che vogliono la pace.
Quello che mi chiedo è perché bisogna… mi fa paura quello che sta succedendo in Europa ma non voglio farmi prendere dalla paura. Quindi ai cortei pacifisti, pro palestinesi. che si stanno svolgendo e si svolgeranno … io abito in una città piccola, Pordenone ma sabato prossimo è previsto un corteo  organizzato dai giovani mussulmani. La mia paura è che prenderà una piega antisemita ma non importa.
Io ci voglio andare ma ci voglio andare come ebrea, non nascondendomi, così come non si nascondono le bandiere palestinesi o le kefie, vogli andarci con una stella gialla. Io non ho paura di dire che appartengo a una famiglia ebraica. Credo che questa sia la linea da prendere, rifacendomi a quello che lei diceva prima nella risposta che ha dato sui popoli che devono rispondere. Ma devono rispondere senza paura anche gli ebrei europei, gli ebrei del mondo. Non si devono nascondere di nuovo.
Se si rendono conto che questo conflitto è disumano sia da una parte che dall’altra, senza andare a cercare le colpe e senza andare a cercare chi ha iniziato, chi non ha iniziato
Credo che dobbiamo uscire allo scoperto anche noi.
E non avere timore, perché il timore ci ha portato a quello che è stato il disastro dell’Olocausto, a dare adito e ad appoggiare col nostro silenzio molte volte un grido di paura. Mio padre ha vissuto poi tutta la vita nella paura.
Io per avere conoscenza cosa era successo da parte della famiglia  in Polonia sono dovuta andare al centro ebraico di Varsavia perché mio padre non  mi ha mai detto cos’era successo alla nostra famiglia perché lui aveva il senso di colpa del sopravvissuto.
Basta, questo non deve esserci più.
Siamo contro la guerra chi è contro la guerra, chi non appoggia il governo di Israele lo deve poter dire liberamente, poter scendere in piazza vicino agli altri senza vergognarsi, senza timore che succeda nulla perché questo allora sarà veramente l’unione dei popoli.
Se ancora abbiamo paura – e io ne ho – perché so benissimo come potrebbe trasformarsi questo corteo sabato prossimo ma penso che lo farò. Chiaramente non sono più giovanissima, una persona degli anni cinquanta però    comunque.
Credo che dobbiamo farlo per dimostrare effettivamente il nostro sdegno nei confronti di questo conflitto.

mattina del 30 luglio. – Ricopio l’intervento pubblicato da Marco Menin e da Lucia Cuocci

Dviri: “Israele tra violenza e caos, ma io continuo a lavorare per la pace” di Manuela Dviri

Sono orribili giornate. Giornate di disperazione.

Non si sono ancora sbiadite le immagini dei tre adolescenti israeliani rapiti e poi barbaramente uccisi da due giovani palestinesi né quelle del giovane palestinese a sua volta barbaramente arso vivo da tre giovani israeliani, eppure è come se fosse successo in un’altra era, in altri tempi.

Ora è caos, morte, distruzione, sconforto totale, angoscia, guerra. Siamo stati tutti travolti, israeliani e palestinesi, dall’ennesima ondata di violenza.

Non sono una politica, non ho votato per il governo che mi rappresenta e non desidero fare propaganda per il mio Paese. Lascio ad altri il compito. Posso solo dire ciò che sento. E sento intorno a me solo dolore.  Ieri mi ha telefonato una vecchia signora, sopravvissuta alla Shoà, di novantacinque anni . “Non voglio più vivere “ mi ha detto. “Non voglio più vedere la sofferenza del mio paese, non ne voglio più sapere di allarmi, di missili, di paura, di quel terribile reticolo di tunnel da qui escono esseri  umani inferociti che vogliono uccidere e rapire i miei figli e nipoti e bisnipoti. Perché sono ancora viva?”

Non so che dirle. Anch’io, a volte, vorrei sparire, non esistere. E alla sofferenza per la morte di soldati diciottenni che conoscevo (siamo in un piccolo paese ci conosciamo tutti), si aggiungono quella per la sofferenza e la morte di tanti bambini di Gaza che non conosco e di tante donne e madri, vittime non solo del nostro esercito, ma anche di chi li usa come scudi umani, violando sistematicamente ogni diritto. 100000 persone, tra cui amici e persone che conosco bene, sono diventati profughi nella loro stessa terra, senza acqua, cibo e luce, ma Hamas, non vuole fermarsi fino alla vittoria su Israele. E che razza di vittoria sarebbe, alla fine? Prima o poi, si sa, anche questa guerra finirà, e  in Israele i politici dovranno rispondere alle nostre domande e rendere conto dei loro errori . Spero che anche a Gaza succederà la stessa cosa.

Ma il mondo, per il momento, tace. Nessuno dice niente. Nessuno fa niente. Chi ha voglia di sentir parlare, o che Dio non voglia, di cercare  di porre fine all’ennesima guerra mediorientale? O di parlare dei 1000 bambini che muoiono ogni giorno in Siria ? o in Iraq? O in Libia?

Qui almeno  si spera  arriverà, prima o poi, il cessate il fuoco. Fino alla prossima volta, naturalmente. Ho dentro un grumo di dolore che non si scioglie. Le lacrime mi strozzano la gola. Voglio che quest’orrore finisca. Vorrei urlare,  vorrei pregare,  ma non  so come. Ero a Roma  un mese fa a pregare con Peres e Abu Mazen nei giardini del Vaticano, Dov’è finita la nostra preghiera?

No, non  ho il lusso di farmi prendere dalla disperazione e dal pessimismo. Ce n’è già più che a sufficienza, intorno a me, e odio e rancore e morte e distruzione. Da ebrea, da israeliana, madre, donna, da essere umano, la mia preghiera laica è continuare  a dedicarmi, anche e soprattutto in queste stesse ore,  a “Saving Children”  un progetto  gestito dal Centro Peres per la Pace, e finanziato dalla Regione Umbria e Toscana.

Il progetto si occupa di salute per bambini palestinesi, qualora all’interno dell’Autorità Palestinese non possano essere curati per ragioni che non sto ora a elencare e che penso non sia difficile immaginare. A ora ne abbiamo curati,  in Israele, più di diecimila. Una goccia nel mare , ma una goccia importante. 170 medici palestinesi si sono specializzati attraverso un progetto parallelo in vari ospedali israeliani e già lavorano a Gaza e a Ramallah.

Mi auguro quindi che l’Italia ci aiuti almeno in questo, e spero di non vedere partire dall’Italia un aereo che venga a portare i bambini feriti in Italia, in un atto tanto bello e scenografico quanto costoso. Abbiamo bisogno di tornare a ricucire l’umanità e la pietas tra i due popoli. Datecene almeno la possibilità. Pregate in questo modo, insieme con noi.

Manuela Dviri è una giornalista e scrittrice italiana naturalizzata israeliana. Nel 1998 il figlio Yonathan, che prestava servizio nell’esercito israeliano, viene ucciso durante un conflitto a fuoco. Da allora si batte per una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese.

29 Luglio 2014Permalink

29 luglio 2014 – l’avevo promesso ieri

La Repubblica 28 luglio 2014 RICORDARE IL FUTURO di DAVID GROSSMAN

LA SITUAZIONE in cui sono intrappolati israeliani e palestinesi assomiglia sempre di più a una bolla ermetica, sigillata. In questa bolla, con gli anni, entrambe le parti hanno messo a punto giustificazioni convincenti e raffinate per qualunque azione da esse intrapresa. Israele può dire, a ragione, che nessun Paese al mondo rimarrebbe immobile di fronte agli incessanti attacchi di Hamas, o alla minaccia dei tunnel sotterranei. E Hamas, dal canto suo, giustifica gli attacchi contro lo Stato ebraico sostenendo che il suo popolo è ancora sotto occupazione e che i cittadini della Striscia di Gaza languono a causa del blocco imposto da Israele.
IN UNA situazione in cui i cittadini israeliani si aspettano che il loro governo faccia qualunque cosa perché nessun bambino rimanga vittima di un commando di Hamas che spunta da sottoterra nel mezzo di un centro abitato limitrofo alla Striscia, chi mai potrebbe discutere con loro? E cosa risponderemo alla gente bombardata di Gaza che sostiene che le gallerie e i razzi sono le ultime armi che ha a disposizione per contrastare una potenza come Israele? Dentro a questa bolla ermetica, crudele e disperata, ciascuna delle parti, ognuna dal suo punto di vista, ha ragione. Ciascuna obbedisce alla legge della bolla: quella della violenza e della guerra, della vendetta e dell’odio.
La domanda più importante che dovremmo porci ora, in piena guerra, non concerne gli orrori che si verificano ogni giorno. Dovrebbe piuttosto essere questa: com’è possibile che da oltre cento anni noi e i palestinesi soffochiamo insieme dentro questa bolla? Siccome non posso porre questa domanda ai rappresentanti di Hamas, e non ho la presunzione di capire il loro modo di pensare, la faccio ai dirigenti del mio paese, all’odierno primo ministro e ai suoi predecessori: come avete fatto a sprecare il tempo trascorso dall’ultimo conflitto senza intraprendere nessuna iniziativa di dialogo, senza tentare un approccio con Hamas per cercare di cambiare l’esplosiva realtà tra noi? Perché Israele, negli ultimi anni, ha intenzionalmente evitato di avviare un negoziato con la parte più moderata e aperta al dialogo del popolo palestinese, anche solo per fare pressione su Hamas? Perché per dodici anni ha ignorato l’iniziativa della Lega Araba che avrebbe potuto coinvolgere Paesi arabi moderati e imporre forse un compromesso a Hamas? In altre parole, come mai, per decenni, i governi israeliani non sono stati in grado di pensare al di fuori della bolla?
Eppure, malgrado tutto, nell’attuale confronto tra Israele e Gaza c’è qualcosa di diverso. Al di là dei toni infiammati di alcuni politici che fomentano il fuoco della guerra e dietro alla grande messinscena di “unità” — in parte genuina, ma per lo più artefatta — della popolazione israeliana, accade qualcosa che riesce a incentrare l’attenzione di molti israeliani su un meccanismo alla base di tutta la “situazione”, un meccanismo di ripetitività sterile, letale.
Qualcosa, in questo ciclo di violenza, di vendetta e di contro-vendetta, rivela a molti israeliani un’immagine che finora avevamo rifiutato di riconoscere. Improvvisamente riusciamo a vedere con brutale chiarezza il ritratto di Israele: un Paese audace, con fantastiche capacità creative e di inventiva, che da più di cento anni gira intorno alla macina di un conflitto che avrebbe potuto essere risolto anni fa. Se rinunciassimo per un momento a considerare le ragioni e le motivazioni con le quali ci proteggiamo da sentimenti di compassione e di semplice umanità verso i moltissimi palestinesi le cui vite sono sconvolte da questa guerra, forse riusciremmo a vederli girare insieme a noi, all’infinito, intorno a questa macina, accecati e intorpiditi dalla disperazione.
Non so cosa pensino esattamente i palestinesi in questi giorni, che cosa pensi la gente di Gaza. Sento però che Israele sta maturando. Con dolore, con sofferenza, digrignando i denti, Israele cresce. O meglio, è costretto a crescere. Nonostante le dichiarazioni bellicose e i proclami infiammati di politici e di commentatori, al di là delle feroci invettive di energumeni della destra contro chi la pensa diversamente da loro, al di là di tutto questo, il flusso centrale dell’opinione pubblica israeliana sta acquistando lucidità.
La sinistra è più consapevole dell’intensità dell’odio verso Israele (che non deriva solo dall’occupazione), della minaccia dell’integralismo islamico e della fragilità di qualunque accordo verrà firmato. Molte più persone, a sinistra, capiscono oggi che i timori e le ansie degli esponenti della destra non sono soltanto paranoie ma scaturiscono da una concreta realtà. Spero che anche la destra riconosca — seppure con rabbia e frustrazione — i limiti della forza, il fatto che anche un Paese forte come il nostro non può agire unicamente secondo la propria volontà e che, nell’epoca in cui viviamo, non ci sono più vittorie inequivocabili. Ci sono soltanto “fotogrammi di vittoria” che lasciano il tempo che trovano e il cui negativo ci mostra che nelle guerre ci sono unicamente perdenti e non esiste una soluzione militare al reale malessere del popolo che abbiamo di fronte. E fintanto che il senso di soffocamento della gente di Gaza non si dissiperà nemmeno noi, in Israele, potremo respirare con agio, con entrambi i polmoni.
Noi israeliani lo sappiamo da decenni, e da decenni ci rifiutiamo di capirlo. Ma forse, questa volta, lo abbiamo capito un po’ di più, oppure, per un momento, abbiamo visto la nostra vita da una prospettiva un po’ diversa. È una comprensione dolorosa, e sicuramente minacciosa, ma potrebbe essere l’inizio di un cambiamento e indicare agli israeliani la necessità impellente, l’urgenza di raggiungere una pace con i palestinesi come piattaforma per un’intesa anche con gli altri Stati arabi. Potrebbe mostrare la pace — così disprezzata oggi — come l’opzione migliore e più sicura fra quelle a disposizione. Anche Hamas maturerà una comprensione del genere? Non posso saperlo. Ma la maggior parte del popolo palestinese, rappresentato da Mahmoud Abbas, ha già optato, in pratica, per l’abbandono del terrorismo e per il negoziato. E potrà il governo israeliano dopo i recenti, sanguinosi scontri e la perdita di tanti giovani a noi cari, esimersi dal tentare almeno questa strada? Continuare a ignorare Mahmoud Abbas come elemento essenziale per la soluzione del conflitto? Continuare a rinunciare alla possibilità di un accordo con i palestinesi in Cisgiordania che conduca a un graduale miglioramento dei rapporti con il milione e 800mila abitanti di Gaza?
In quanto a noi, in Israele, non appena la guerra sarà terminata, dovremo cominciare a creare un nuovo tipo di solidarietà che modifichi il quadro degli odierni, ristretti interessi settoriali. Una solidarietà fra coloro che sono consapevoli del pericolo mortale di continuare a girare la macina. Fra coloro che capiscono che le linee di confine oggigiorno non sono più tra arabi ed ebrei ma tra chi aspira a vivere in pace e chi invece si nutre, emotivamente e ideologicamente, di violenza e ne vuole il proseguimento. Sono convinto che in Israele ci sia ancora una massa critica di persone, di sinistra e di destra, religiosi e laici, ebrei e arabi, in grado di approvare, in maniera coerente e senza farsi illusioni, tre o quattro punti di un accordo per una soluzione del conflitto con i nostri vicini. Molti “ricordano ancora il futuro” (un ossimoro, una locuzione strana, ma azzeccata in questo contesto) che desiderano e che augurano a Israele e alla Palestina. C’è chi si rende conto (chissà per quanto tempo ancora) che, se ci faremo sopraffare dall’apatia, se lasceremo le cose in mano agli altri, ci sarà chi ci trascinerà tutti, con fermezza e impeto, nella prossima guerra e, strada facendo, attizzerà ogni possibile focolaio di scontro nella società israeliana. E noi tutti, israeliani e palestinesi, continueremo a girare con gli occhi bendati, a testa china, accomunati dalla disperazione e intorpiditi dalla stupidità, intorno alla macina del conflitto che frantuma e polverizza le nostre vite, le nostre speranze e la nostra umanità.
( Traduzione di Alessandra Shomromi)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

29 Luglio 2014Permalink