15 febbraio 2014 – Se ci si mette anche il sindaco di New York

A New York carte di identità agli Undocumented …

Si legge su diversi quotidiani di un’iniziativa del poco più che cinquantenne nuovo sindaco di New York che porta per sua scelta (legalmente registrata parecchi anni fa) il cognome della mamma la cui nonna veniva dall’Italia.
Così si è rivolto Bill de Blasio ai cittadini di New York:
«A tutti i miei concittadini che sono degli immigrati senza documenti: questa città è casa vostra».
Il sindaco non si limita a un’espressione di emozioni ma, da competente responsabile amministratore, indica lo strumento che rende cittadini de la Grande Mela.
La città di New York rilascerà carte d’identità anche agli immigrati clandestini. Undocumented, senza documenti, è l’espressione che il sindaco preferisce perché non implica una criminalizzazione. Insieme con l’altra proposta sul salario minimo vitale, l’offerta agli stranieri conferma che de Blasio non ha paura di suscitare controversie.
Fin qui la cronaca.
L’articolo cui faccio riferimento si può leggere integralmente anche da qui io però voglio consentirmi qualche commento.

 .. e i loro figli resi fantasma in Italia.
In mezzo all’indifferenza generale due sono le linee prevalenti di approccio alla presenza di stranieri senza permesso si soggiorno.
La prima è quella furbesca e abilmente diffusa in maniera capillare dalla Lega Nord già dai tempi in cui si chiamava Padania: creare il nemico per scatenare su ogni piano – dal personale al politico – reazioni xenofobe e razziste.
La seconda è quella dei ‘buoni’, dei donatori in spirito di gratuità, dei ‘benefattori’.
Fra costoro c’è chi coerentemente impegna la propria vita, erogando servizi, assistendo, tendenzialmente presente dove si esprime una necessità, ma in fuga appena si parli del diritto fondamentale di esistere, in maniera giuridicamente riconosciuta.
Mi chiedo se non sia una nuova forma di cultura neocoloniale.
Una spiegazione può esserci: siccome la possibilità di gestire situazioni di assistenza dipende anche dal consenso istituzionale e le istituzioni, dai comuni al parlamento, non vogliono misurarsi col dissenso nazional-popolare,  allora anche i buoni organizzati tacciono, obbedienti alla consegna della tranquillità. Pochi affrontano la fatica del dissenso.
Da cinque anni mi occupo della questione della registrazione anagrafica negata per legge ai figli dei sans papier, gruppo discriminato che fa saltare – proprio nel momento fondante del riconoscimento giuridico dell’esistenza di un nuovo nato – il principio di uguaglianza.
La registrazione dell’atto di nascita comporta l’assegnazione del codice fiscale che consente l’accesso a una serie di servizi altrimenti negati (come si fa, ad esempio ad assicurare cure a chi non esiste, ad accogliere in un asilo nido chi non c’è?)
E’ quel codice condizione per acquisire più avanti la carta di identità, quella che il sindaco de Blasio vuole garantire ai suoi concittadini Undocumented e che i ‘nostri’ bambini non potranno avere al momento opportuno.
O meglio l’avranno se funzionerà il ‘trucco’ immaginato dai nostri eroici legislatori, combattenti di neonati. Il trucco è concedere con strumento amministrativo ciò che si nega per legge.

 Il rischio ‘de Blasio’
Così una circolare consente ciò che la legge nega ma funziona finché il governo lo desideri e – come ogni atto amministrativo – può essere ritirata, modificata senza il coinvolgimento democratico del parlamentò.
E’ vero che scrivere queste cose nella giornata in cui si srotola una crisi di governo  extraparlamentare suscita un qualche imbarazzo.  Però che l’esistenza di una persona dipenda non da una norma ma da un volatile pezzo di carta – ad alcuni concesso, ad altri no – suscita un turbamento profondo, sempre che uno ci pensi, e crea i padroni (arcigni o buoni e compassionevoli è la stessa cosa) della vita altrui
A questo punto ecco il ‘rischio de Blasio’: offrire ai ‘buoni’ un altro slogan, un’altra icona chiacchierando della quale si possa svicolare dal dovere di riconoscere l’esistenza di tutti i nuovi nati.
Così l’omaggio al bravo sindaco di New York sarà un altro strumento da esibire per assicurarsi consensi e nello stesso tempo per manifestare la propria indifferenza di fronte alla necessità di modificare una legge.

15 Febbraio 2014Permalink

10 febbraio 2014 – Non passi lo straniero

Oggi è giunta la notizia della vittoria nel referendum svizzero della scelta che vuole norme rigide, regolate da flussi, per la presenza straniera.
Penso con paura alle prossime elezioni europee e con pietà ai transfrontalieri lombardi che saranno colpiti dalla norma quanto da noi un non comunitario.

Italiani e Svizzeri uniti nella lotta o divisi dalla convenienza?
Ho mandato un SMS al numero 3355634296 della RAI per segnalare l’analogia con il nostro pacchetto sicurezza che nega – ancor più radicalmente – la registrazione dell’atto di nascita dei figli di migranti irregolari.
Ho poi scritto all’indirizzo della trasmissione che inizierà fra poco su radio 3 (la citta@rai.it) il testo che riporto
A proposito dei bambini figli di emigranti cui in Svizzera era negata la convivenza con i genitori segnalo la valida inchiesta (norme e testimonianze) di Marina Frigerio Martina BAMBINI PROIBITI – Storie di famiglie italiane in Svizzera tra clandestinità e separazione. COLLANA Orizzonti pp. 208 Casa editrice IL MARGINE  Via Taramelli n.8 – 38122 Trento

Ricordo però che l’Italia per una precisa categoria di bambini segue – in forma ancor più radicale – il metodo svizzero.
Infatti a seguito del cd pacchetto sicurezza (legge 94/2009 – art. 1, comma22, lettera g) è stata introdotta una norma che neppure la Bossi Fini aveva previsto per cui ai figli di migranti irregolari è negato il certificato di nascita. La manovra è obliqua. Ai genitori  per registrane la nascita in comune viene chiesto il permesso di soggiorno che – per essere irregolari non hanno. Ne consegue l’impossibilità per legge di registrare l’atto di nascita e l’espulsione.
Praticamente ai nuovi nati viene affidata la funzione di identificazione ed espulsione altrimenti propria dei discussi CIE:
Poiché ciò avrebbe comportato penalizzazioni internazionali ciò che la legge nega è ammesso per circolare (n.19/2009) ma il principio resta.
L’esistenza del problema e di bambini nascosti è testimoniata anche dal rapporto della Convention on the Rights of the Child (http://www.gruppocrc.net/IMG/pdf/6_rapporto_CRC.pdf   cap. III 1  pag.41)
Per conoscer epiù approfonditamente la situazione:
http://www.linkiesta.it/immigrati-figli-anagrafe

Grazie
Augusta De Piero  – Udine

10 Febbraio 2014Permalink

9 febbraio 2014 – Quando una donna pensa fra troppi irresponsabili

A proposito della decisione del Presidente del Senato per cui il Senato stesso di costituisca parte civile contro Berlusconi nel processo per la presunta compravendita di senatori riporto tratti di un passo dal pezzo che avevo scritto nel mio diariealtro il 3 marzo 2012
«Il sen. Sergio De Gregorio ha confessato di aver ricevuto nel 2006 dall’on. Berlusconi tre milioni di euro per far cadere il governo Prodi, passando dall’Italia dei Valori al partito di Berlusconi che allora si chiamava ancora Casa delle Libertà.                    […]
Era appena nato il governo Prodi (maggio 2006) e dovevano essere eletti, dopo i presidenti di camera e senato, i presidenti delle commissioni che, secondo prassi, sono distribuiti fra i partiti in campo ad assicurare una corresponsabilità (che è anche fonte di trasparenza) nella conduzione dell’attività parlamentare che precede l’aula.
Per gli accordi intercorsi sarebbe dovuta essere Presidente della Commissione difesa la senatrice Lidia Menapace, rappresentante del Partito della Rifondazione Comunista, una signora con un passato politico e professionale di tutto rispetto.
Proprio il De Gregorio, con una manovra tanto scorretta quanto abile, le sottrasse la Presidenza, dimostrandosi così oggetto sicuro di futuro acquisto.
Occorre però precisare che – a memoria di chi scrive – la senatrice Menapace non fu adeguatamente sostenuta né dal suo partito, né dalle forze di maggioranza, né dai movimenti delle donne che pur si battevano per le donne in politica ai livelli decisionali, né dall’associazionismo pacifista.
Evidentemente tutti costoro non avevano saputo leggere il significato di un gesto che, riguardando una donna, probabilmente giudicarono non degno di attenzione.
La senatrice continuò ad esercitare con intelligente dignità il suo ruolo di componente la commissione, ormai presieduta dal De Gregorio, fino al mese di maggio del 2008 quando il governo Prodi cadde. E oggi sappiamo come e perché»
La notizia fu integralmente riportata da Repubblica e si può leggere integralmente anche da qui.

9 Febbraio 2014Permalink

7 febbraio – Mutilazioni Genitali Femminili

Ieri era la giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili.
Non ho fatto in  tempo a trascrivere questo mio articolo comparso sul numero di gennaio di Ho un sogno.   Provvedo oggi.

CONTRO LE DONNE. LE MUTILAZIONI GENITALI FEMMINILI NEL NOSTRO PAESE

Avevamo concluso il pezzo dello scorso numero su Le donne migranti e il diritto alla salute – un’intervista a Claudia Gandolfi, medico e operatrice del GrIS del FVG (Gruppo Immigrazione e Salute della Società Italiana di Medicina delle Migrazioni) – con un  richiamo alle mutilazioni genitali femminili, un problema terribile per chi le subisce e una questione che è doveroso affrontare. Le donne mutilate sono ormai presenti sul nostro territorio e non basta riconoscere la mutilazione come reato per impedire nuovi casi. Ancora una volta ci viene in aiuto Claudia Gandolfi, mettendoci a disposizione una sua ricerca sul tema.

Violazione dell’integrità fisica, psichica e morale delle donne, le mutilazioni genitali sono interventi distruttivi e intesi al controllo della sessualità delle giovani, che possono avere entità differenti:  dall’asportazione del prepuzio del clitoride o del clitoride stesso con rimozione parziale o totale delle piccole labbra, all’infibulazione o circoncisione faraonica, cioè l’asportazione di parte o della totalità dei genitali esterni e sutura o restringimento del canale vaginale.

Naturalmente le conseguenze sulla salute delle donne sono molto gravi e si manifestano sia nei rapporti sessuali e nel parto, sia con l’insorgenza di vere e proprie patologie. Occorre considerare non solo le possibili emorragie legate all’intervento o lo shock, ma anche le infezioni che ne conseguono: setticemia o tetano, infiammazioni pelviche o del tratto urinario, epatiti, HIV, ostruzione del flusso mestruale e delle urine, fistole urinarie e fecali. È necessario tener presente, ancora, che la mutilazione non solo viene praticata senza anestesia ma in condizioni igieniche precarie e con strumenti rudimentali (coltelli, forbici, rasoi o pezzi di vetro e in alcuni contesti anche pietre affilate). A eseguire l’intervento sono in genere donne anziane autorevoli nella comunità ed “esperte” nella pratica, ma anche ostetriche tradizionali o barbieri del villaggio.

In generale le mutilazioni genitali femminili vengono collocate tra le tradizioni che segnano il passaggio dall’infanzia all’età adulta, un rito attraverso il quale si diventa “donna”. Appartengono a culture tribali antiche e profonde e non vi sono evidenze scientifiche di una correlazione tra religione e diffusione della pratica: sono diffuse sia fra i cristiani (protestanti, cattolici e copti), che fra i musulmani, gli ebrei, gli animisti e gli atei in Africa, Medio Oriente, Asia. L’Organizzazione mondiale della sanità stima che nel mondo siano 100-140 milioni le donne mutilate e che le bambine sottoposte a tali pratiche raggiungano, ogni anno, circa i 2 milioni.

Le bambine, appunto. Un periodo cruciale per il rischio che si intervenga su di loro – anche se residenti in Europa – è il periodo delle vacanze estive quando, affidate alle nonne, rischiano di essere mutilate a garanzia di un loro apprezzamento e di una “sicura” vita matrimoniale. Sebbene molti stati si oppongano alla mutilazione (che pur viene praticata) con leggi che la condannano e campagne di informazione affidate a esponenti delle comunità di villaggio (soggetti importantissimi per l’autorevolezza loro riconosciuta), il rischio resta. E non è indifferente nemmeno per le bambine e le adolescenti  che vivono in Europa e in Italia.

È fondamentale quindi che anche da noi i medici (in particolare i ginecologi, per le attività di cura, e i pediatri, per la dovuta prevenzione) conoscano il problema e se ne facciano carico nell’ambito delle rispettive competenze.  In Italia è stata approvata la  legge n. 7 del 9 gennaio 2006 “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”, che prevede una pena dai quattro ai dodici anni di reclusione per chiunque pratichi mutilazioni genitali su una bambina o una donna, sia che l’operazione avvenga in Italia, sia che venga praticata nel paese d’origine e poi rilevata al rientro nel nostro paese. E la pena è estesa non solo a chi esegue l’operazione ma anche a genitori o parenti che l’abbiano richiesta.

Sarebbe opportuno garantire una giusta informazione anche nelle scuole frequentate dalle piccole a rischio, in modo da raggiungere il più possibile i genitori, suscitando la loro attenzione di fronte alle conseguenze penali che ne possono derivare, ma soprattutto per indurli al superamento del pregiudizio.
In Friuli il GrIS svolge un importante lavoro d’informazione e prevenzione delle mutilazioni genitali femminili e si segnala anche il contributo delle mediatrici  di comunità, che possono istituire un rapporto privilegiato con le donne mutilate e fornire testimonianze utili per la crescita della consapevolezza intorno al problema in tutti gli ambienti interessati

7 Febbraio 2014Permalink

2 febbraio – Donne responsabilmente pensanti

Due NO importanti all’indecenza

Riporto con piacere un’iniziativa della consigliera comunale di Udine, Chiara Gallo.
Chiara ha constatato che non è stata inserita nel calendario dei lavori parlamentari la proposta di legge 740, finalizzata a reintrodurre il riconoscimento anagrafico ai figli dei sans papier (di cui ho scritto innumerevoli volte in questo blog dove potete leggerne la trascrizione il 17 giugno).
Di conseguenza ha pensato di scrivere al capogruppo del Pd, alla presidente della Camera Boldrini, del Senato Grasso e al presidente della I commissione (affari costituzionali, della presidenza del consiglio e interni)  cui la proposta è stata assegnata. Ne ha dato informazione anche al primo firmatario della proposta stessa.
Così ha dato il secondo scossone a una proposta di legge che tenta di correggere la mostruosità introdotta nel 2009 nella legislazione italiana. Con quella norma si è negato il principio di uguaglianza per alcuni neonati cui è rifiutato il riconoscimento di un’esistenza giuridicamente riconosciuta.
Il primo scossone lo aveva dato – era il 2010 – l’allora consigliera provinciale Paola Schiratti che aveva convinto l’allora deputato Leoluca Orlando a presentare una proposta di legge che decadde nell’indifferenza anche dei tre firmatari con la fine della legislatura.
Ora i firmatari della proposta sono 104 (maggioranza Pd, una deputata SEL, due di ‘per l’Italia’).
C’è da sperare che lo scossone di Chiara solleciti il loro interesse ad assicurare la discussione della legge.
In calce alla lettera con cui Chiara si è rivolta ai suoi interlocutori ho lasciato le sigle di associazioni firmatarie e di persone presenti in istituzioni (consiglio regionale FVG e comunale di Udine) perché è giusto sapere di cosa si occupano le associazioni e cosa pensano i nostri rappresentanti, mentre non  pubblico i nomi delle singole persone che hanno voluto sostenere l’iniziativa (fra cui ci sono anch’io), non essendo questa una formale raccolta.
Cercherò di avvertire direttamente quelli che conosco.
Chi volesse ripercorrere la storia di questa vicenda potrà leggere l’articolo di Tommaso Canetta e Pietro Pruneddu  , riportato in questo blog il 21 dicembre 2013   

La lettera di Chiara

Gentilissimo On. Roberto Speranza

Associazioni, rappresentanti delle Istituzioni, cittadine e cittadini del Friuli Venezia Giulia (e non solo) intendono sottoporre alla Sua attenzione la problematica della registrazione anagrafica dei bambini nati in Italia da genitori stranieri “irregolari”, questione segnalata anche all’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza Vincenzo Spadafora nel corso dell’illustrazione della seconda relazione annuale presentata il 10 giugno 2013.

La Legge 94/2009 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica – art. 1, comma 22, lettera g) prevede che gli stranieri debbano esibire agli uffici della pubblica amministrazione “i documenti inerenti al soggiorno” per una serie di obiettivi fra cui la registrazione degli atti di stato civile.

E’ evidente che i cittadini extracomunitari in situazione di irregolarità non dispongono del permesso di soggiorno e se tale documento fosse loro richiesto, per evitare il rischio di espulsione, potrebbero privare il nuovo nato del certificato di nascita, un documento indispensabile per la vita e per la dignità di ogni persona.

Il Ministero dell’interno ha emanato a suo tempo la circolare del 7 agosto 2009, n.19 del Dipartimento per gli Affari interni eTerritoriali, nella quale si precisa che «per le attività riguardanti le dichiarazioni di nascita e di riconoscimento di filiazione (registro di nascita – stato civile) non devono essere esibiti documenti inerenti il soggiorno».

Sebbene la circolare ministeriale abbia contribuito a dirimere il dubbio iniziale circa l’interpretazione dell’articolo 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, poi modificato dalla legge 94/ 2009, va considerato che la stessa potrebbe essere disapplicata essendo di rango inferiore alla legge per cui per evitare ciò sarebbe necessaria una modifica normativa.

In mancanza del certificato di nascita il bambino non risulta esistere quale persona e quale individuo destinatario delle regole dell’ordinamento giuridico. In mancanza del certificato di nascita, che testimonia l’identità della madre e del padre, al bambino non viene assicurata la tutela da parte dei genitori, è condannato ad essere un apolide ed è invisibile agli occhi dello Stato.

All’inizio della legislatura è stata presentata la proposta di legge n. 740, primo firmatario On. Rosato, sottoscritta da 104 deputati, per la quasi totalità del Partito Democratico, che purtroppo, ad oggi non è stata calendarizzata. E’ per questo che siamo a chiedere, nella sua funzione di capogruppo del PD alla Camera dei Deputati, un autorevole e risolutivo intervento perché la proposta di legge prosegua il suo iter.

Siamo certi del Suo impegno per una battaglia di civiltà che da troppo tempo stiamo portando avanti con l’esclusivo fine di riconoscere un diritto negato.

Alleghiamo la p.d.l. n. 740 e l’elenco dei firmatari della presente.

Auspicando un sollecito avvio dell’iter parlamentare della proposta restiamo in attesa di un cortese riscontro e la salutiamo cordialmente.

CHIARA GALLO

FIRMATARI

Associazione “Centro di accoglienza e di promozione culturale E. Balducci” (referente don Pierluigi Di Piazza)
Associazione “Vicini di Casa” Onlus (referente don Franco Saccavino)
Fondazione “Casa dell’Immacolata di don Emilio de Roja” (referente don Gianni Arduini)
Associazione Libertà e giustizia (referente Loredana Alajmo)
Associazione “Le donne resistenti” (referente Paola Schiratti)
Associazione “Nuovi Cittadini” Onlus  (referente Silvia De Lotto)
Associazione “SeNonOraQuando? comitato territoriale di Udine” (referente Andreina Baruffini)
Associazione “Centro Solidarietà Giovani Giovanni Micesio” Onlus (referente don Davide Larice)
GrIS del FVG (Gruppo Immigrazione e salute della Società Italiana Medicina delle Migrazioni – referente Guglielmo Pitzalis)
Nascente soc. coop. a r.l. (referente Flavio Sialino)

I e le consigliere regionali del Friuli Venezia Giulia Chiara Da Giau, Emiliano Edera, Pietro Paviotti,  Stefano Pustetto, Gino Gregoris, Silvana Cremaschi, Armando Zecchinon, Alessio Gratton
I e le consigliere comunali di Udine Chiara Gallo, Monica Paviotti, Eleonora Meloni, Marilena Motta, Claudio Freschi, Hosam Aziz, Federico Filauri
L’Assessora ai diritti di cittadinanza e all’inclusione sociale del Comune di Udine Antonella Nonino

 

2 Febbraio 2014Permalink

26/01/2014 – Protagonismo infantile 1

Riporto integralmente due interventi di Massimo Gramellini, uno si riferisce a un fatto recente, l’altro è meno vicino nel tempo ma altrettanto significativo.

24 gennaio  –   Il ministro che non c’é

Ma l’Italia ce l’ha un ministro dell’Interno?, si chiede Antonio Barone nel suo blog sull’Huffington Post. A scandalizzarlo, a scandalizzarci, è il silenzio di Alfano intorno al rogo di Cocò, il bambino di tre anni ucciso e bruciato dalla ’ndrangheta. Quel gesto disumano, che ha cancellato definitivamente l’epica dei cosiddetti «uomini d’onore», scosso le coscienze e ispirato parole infuocate a Claudio Magris, è planato sulle spalle larghe del ministro senza lasciare traccia. In cinque giorni neppure una dichiarazione o un gesto che dessero la sensazione di uno Stato presente e, se non responsabile, almeno consapevole. Evidentemente Alfano considera ordinaria amministrazione che sul territorio italiano si consumino non solo i rapimenti dei familiari di un oppositore kazako, ma anche le mattanze infantili.

La storia di Cocò è ancora più complessa e avvilente per le strutture dello Stato: c’è di mezzo una mamma in galera con cui il piccolo ha convissuto dietro le sbarre, prima di essere affidato da una decisione demenziale al nonno pregiudicato. Ma neanche su questo Alfano ha trovato il tempo di dire qualcosa. Comprendiamo che i tormenti della legge elettorale ingombrino una parte imponente della sua pur vasta intelligenza. E siamo certi che abbia presieduto vertici su vertici per mettere nel sacco gli assassini di Cocò. Ma la politica è comunicazione. Un ministro che parla di listini bloccati e non di un fatto di sangue che ha sconvolto il mondo intero farebbe meglio a presentare le dimissioni. Pubblicamente, però. Altrimenti non se ne accorgerebbe nessuno.

 18 ottobre  –  Funerali di non è Stato.

Come può prendersi cura dei vivi un Paese che non riesce a decidere nemmeno sui morti? La bara di Priebke gira l’Italia da una settimana, strattonata e presa a calci appena si affaccia per strada, senza trovare una buca dove andare a nascondersi. Intanto ci siamo dimenticati di fare i funerali alle vittime di Lampedusa. Proprio così: dimenticati. Ministri, primi ministri e affettate figure istituzionali hanno sfilato con sguardi dolenti sul molo e davanti alle salme della tragedia. C’è stato cordoglio, c’è stato sdegno, c’è stato lo sciame sismico di dichiarazioni scontate. Quel che non c’è stato, come sempre, è lo Stato. Qualcuno che, tra un cordoglio e uno sdegno, trovasse il tempo per allestire una cerimonia solenne di congedo per quei poveri cristi.

A chiunque di noi si rechi in visita a una camera ardente viene spontaneo chiedere il giorno e il luogo dei funerali. Invece a Lampedusa i nostri globetrotter della lacrima non si sono neppure domandati se fossero previsti, dei funerali. Colpisce la loro ostinazione nel rifiutarsi di sfogliare almeno le figure del manuale del buonsenso. Dopo avere riunito su una zattera centinaia di disgraziati, il destino li ha infine dispersi tra vari cimiteri siciliani, tumulati in silenzio dentro tombe anonime. Ma lo scrupolo di coscienza, che è il nome con cui dalle nostre parti si chiama la coda di paglia, ha suggerito allo Stato di correre ai ripari. Lunedì prossimo, a cadaveri ampiamente sepolti, si terrà una commemorazione ad Agrigento, città nota per avere dato i natali al filosofo Empedocle e poi, per compensare, ad Alfano.

I protagonisti sono bambini.

In entrambi i casi i protagonisti sono bambini. Nel primo la presa in carico degli assassini è diretta: un piccolo di tre anni ammazzato e bruciato, nell’altro c’erano bambini, ospiti di piccole bare senza nome.
In ogni modo sono vittime dei disastri italiani: connivenze con  una criminalità organizzata e consolidata (fino ad affidare il piccolo figlio di carcerati a un nonno  ‘ndranghetista), incapacità di assicurare una accoglienza  che  sia almeno certezza di sopravvivenza

26 Gennaio 2014Permalink

18 gennaio 2014 – Una ragazza non-nata per tre anni

Avevo raccontato il 22 marzo

…  scorso la storia della ragazza figlia di cittadini albanesi che, nata in Italia, vissuta costantemente in Italia, al compimento del 18mo anno si era vista negare la cittadinanza italiana perché, a casa di un  errore del comune di residenza, era stata iscritta all’anagrafe con tre anni di ritardo.
Ha resistito, è ricorda al Tribunale e infine è stato riconosciuto il suo diritto ad avere la cittadinanza italiana.

La giusta, inutilmente tormentata, conclusione

Da il Corriere della sera del 18 gennaio  –  Stefano Pasta

Le è arrivato un sms mentre era a sciare con gli amici: «Monnalisa è italiana!». Il mittente era il suo avvocato. Sì, perché che Monnalisa dovesse essere italiana ha dovuto dirlo un giudice del Tribunale di Siena. Avevamo raccontato la sua storia: non bastava essere nata in Italia, averci vissuto per tutta la vita (19 anni) e aver frequentato asilo, elementari, medie e superiori. No, il Ministero dell’Interno ha scritto al sindaco di Monteriggioni, il suo Comune di residenza, che, per la legge, Monnalisa restava «una cittadina albanese per diritto di sangue». Anche se in Albania ci era andata una sola volta in tutta la sua vita, in vacanza. Il Ministero contestava infatti a Monnalisa di essersi iscritta all’anagrafe solamente all’età di tre anni (per un errore dell’impiegato dell’anagrafe di allora, peraltro).

Lei non si è arresa: insieme alla sua famiglia e agli avvocati Giulia Perin e Carla Guerrini ha fatto causa in Tribunale, portando, come già aveva fatto con il Ministero, le prove della sua presenza continuativa in Italia (certificato di nascita, attestati di vaccinazioni, esami medici) anche prima dell’ottenimento della residenza. Il giudice le ha dato ragione, mettendo nero su bianco che Monnalisa «è in possesso dei requisiti per conseguire la cittadinanza italiana». Con un’aggiunta: il Comune di Monteriggioni, per avere seguito le indicazioni del Ministero, è stato condannato a pagare 2.332,91 euro più iva di spese processuali.

«La vittoria era facilmente prevedibile – spiega l’avvocato Giulia Perin dell’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) – perché già in passato c’erano state sentenze simili e la giurisprudenza aveva già aperto questa via. La novità è invece la condanna alle spese legali. Finché l’unico rischio per l’Amministrazione che sbaglia è l’adozione del provvedimento dovuto, il cittadino e lo straniero sono privi di tutela effettiva. L’applicazione del principio “chi sbaglia paga” ha, nella nostra esperienza, una grande forza dissuasiva. In questo caso, peraltro, abbiamo deciso di non chiedere al Comune di Monteriggioni di corrisponderci le spese legali, perché proprio l’ente locale ha più volte interpellato il Ministero dell’Interno per verificare se ci fosse la possibilità di riconoscere la cittadinanza italiana a Monnalisa. Non riteniamo dunque giusto che il Comune sia tenuto a pagare per un’inadempienza imputabile allo Stato; il principio affermato nella sentenza però resta: anche l’Amministrazione deve pagare per i propri errori».

Senza il bel gesto degli avvocati, sarebbero stati soldi pubblici sprecati per la testardaggine del Ministero. E ora? Se seguissero una pioggia di ricorsi di ragazzi nella stessa situazione di Monnalisa – e di conseguenti condanne economiche ai Comuni per aver fatto quello che dice il Ministero –, come farebbero le casse già stremate degli enti locali?

Lei, intanto, si gode la vittoria e dice con accento toscano: «Sono felice, si è realizzato un sogno. Da una parte, non cambia quasi niente; dall’altra, è ufficiale: sono cittadina anch’io, posso votare, esprimere il mio pensiero politico, non devo più fare la fila per rinnovare il permesso di soggiorno». Quando l’ha saputo, era in seggiovia con gli amici: «Anche loro erano contenti, ma mi consideravano italiana già da un pezzo».

La mamma Eliana, accanto alla gioia, sottolinea invece un po’ di amarezza per essere dovuta ricorrere al Tribunale: «È una legge paradossale e assurda: io, mio marito, e di conseguenza la nostra figlia più piccola, avevamo già avuto la cittadinanza italiana un anno fa, mentre Monnalisa era rimasta l’unica straniera di famiglia, proprio lei che è la più italiana di tutti noi!». Ecco, forse andrebbe spiegato questo al ministro Alfano, preoccupato che lo ius soli trasformi l’Italia «in una sala parto per ottenere la cittadinanza», che la legge attuale va riformata perché nega la cittadinanza a ragazze come Monnalisa, che nelle sale parto italiane ci sono nate 19 anni fa, si chiamano come il ritratto italiano più famoso al mondo e parlano con lo stesso accento di Dante Alighieri

La mia conclusione

E’ evidente la correlazione fra il certificato di nascita e la cittadinanza che, su quel certificato viene registrata.
Perché ci si ostina a negarlo per legge ai figli degli immigrati non regolari costruendo situazioni che impegnano i tribunali a un lavoro evidentemente inutile?

18 Gennaio 2014Permalink

16 gennaio 2014 – Ricevo da Giancarla Codrignani

Pubblico volentieri questo scritto di Giancarla Codrignani, che altre volte ho citato, che ritengo possa aprire la strada un dialogo informato e razionale.
Non conoscevo Marea – termine che ho ritrovato nella data dell’articolo – e ne ho recuperato il link.
http://www.women.it/cms/

ABORTION IS (NOT) A RIGHT                             Marea, n.1 – gennaio 2014

Giancarla Codrignani

Sarebbe una gran bella cosa se riuscissimo a realizzare un coordinamento europeo di donne per i diritti di genere.

Ci aveva provato in Francia Choisir, che un paio di anni fa aveva promosso una campagna per l’estensione a tutta l’Unione delle migliori leggi dei diversi paesi su determinati temi. Anche Snoq aveva portato avanti l’idea di leggi comuni “di genere”, prontamente contestata – come già in Francia Choisir – perché le donne non sono “una specie protetta”. Peccato che la realtà sorpassi sempre l’immaginazione.

Almeno da quando perfino in Italia lo scandalo della clandestinità degli aborti ha prodotto una legge “per la maternità libera e responsabile” convalidata da due terzi del paese chiamato a referendum abrogativo, le donne europee si sentivano abbastanza al sicuro. Ovvero, noi italiane ci tenevamo la questione dell’obiezione di coscienza e anche alle altre non mancavano problemi che abbiamo sempre sbagliato a ritenere “piccoli”; ma a tutte bastava l’accesso legale all’aborto. Anzi,  ormai molte – come me – si erano messe a pensare a nuove questioni antropologiche: se la RU486, la pillola del giorno dopo e quella abortiva privatizzeranno la decisione abortiva, di fatto, si autorizzerà la disponibilità del nostro corpo a rapporti irresponsabili e senza consenso?

Invece la doccia fredda sia del governo Rajoy in Spagna di cancellare, in nome della difesa della vita, le norme Zapatero del 1985, sia del voto europeo che ha bocciato (anche per l’astensione di alcuni europarlamentari PD, mentre francesi e tedeschi hanno accusato un fuorviante errore di traduzione per giustificarsi) la relazione della portoghese Edite Estela sul diritti riproduttivi, tra cui “l’aborto sicuro e legale”,  da estendere all’intera UE.

Se diamo uno sguardo in giro, facciamo bene a non sentirci sicure e a prevenire altri guai. Infatti il panorama non è entusiasmante, a riprova del fatto che, sul piano dei diritti, la prima linea difensiva la facciamo noi. Prescindiamo dagli Usa, dove le donne non si sono mai riprese dal colpo mortale di non essere riuscite (mancò il voto di due stati) ad emendare in forma paritaria la Costituzione; tuttavia è assai grave che negli ultimi tre anni più della metà degli stati abbia modificato le disposizioni sull’interruzione di gravidanza e tra poco la stessa Corte Suprema si dovrà pronunciare in materia. Guardando all’Europa, sembrerebbe  che la Francia sia al sicuro con la legge Veil del 1975. Non è così : il 2 febbraio ci sarà “la Manif”, a Versailles contro la “morte prenatale dei bambini”, contro la cultura di genere, contro l’omosessualità e per la tutela della famiglia. La reazione ha usato furbescamente il termine Choisir, antica sigla femminista di Gisèle Halimi, per il proprio “choisir la vie”. Dice in un’intervista Cécile Edel del gruppo promotore: “affinché le donne possano veramente essere libere, è urgente riconoscere il dolore delle donne che hanno abortito, denunciare la sordida realtà dell’aborto, accompagnare le donne e informarle sulle alternative possibili”. Abbiamo già sentito queste parole e le risentiremo: Il Movimento per la vita si è mosso ovunque e ha ha raccolto due milioni di firme per portare all’attenzione del Parlamento europeo lo statuto dell’embrione come persona, “uno di noi”.

In Germania l’aborto è illegale perché vietato dalla Costituzione (ovviamente, dopo le leggi hitleriane sulla selezione), anche se la Corte costituzionale ha riconosciuto la non punibilità per quasi tutto: il pericolo di vita della donna, lo stupro, le malformazioni fetali e le condizioni economiche. Lo stesso in Austria, solo che il 9 febbraio gli austriaci sono chiamati ad una votazione popolare dalla campagna “il finanziamento dell’aborto è una questione privata”. Con la stessa motivazione che intacca la solidarietà sociale delle norme, anche in Svizzera si andrà ad un referendum (ahimè collegato ad altri due sull’immigrazione). In Belgio la questione si è complicata lo scorso anno perché la solita manifestazione “anti” era esasperata dalla proposta di estendere l’eutanasia ai bambini. In Inghilterra, dove si recano le donne di tutti i paesi che hanno leggi di divieto, si è verificato un paio di casi di medici che hanno accettato accordi con donne per aborti selettivi: di femmine…. Soddisfatti sembrano solo i portoghesi che sperano nell’emigrazione delle spagnole se Rajoy procederà ad annullare le leggi socialiste.

Si evidenzia, dunque, la potenziale efficacia di una solidarietà transnazionale anche se è ancora da inventare. Perfino in Polonia le femministe hanno diffuso un cartello My Choice con l’indicazione  dei voli scontati – 70 euro – per la Gran Bretagna.

Speriamo di farcela. Noi vecchia guardia ci siamo, credo, tutte. Dice bene – e colorito – Diana Lopez Varela che l’ha scritto al presidente Rajoy: mi cogno es mìo y yo decido lo que entra y lo que sale de el. La vecchia autodeterminazione.

In Italia dobbiamo tenere presenti due dati di realtà da cui partire: l’obiezione di coscienza e i dubbi sul numero degli aborti dati dal ministero della sanità. Sul primo punto ci si è battuti per il riconoscimento dell’odc. al servizio militare obbligatorio perché riguardava la disobbedienza ad un principio costituzionale. Le leggi, invece, sono solo riformabili, non obiettabili – provatevi a non pagare le tasse – e un medico non è obbligato ad esercitare nelle strutture pubbliche. Il negoziato per ottenere la legge 194 del 1978 è stato troppo oneroso e oggi ne sta boicottando  l’applicazione. Anche perché questa carenza contraddice le dichiarazioni circa la presunta diminuzione degli aborti in Italia. Proprio mentre sono in aumento in tutta Europa a causa soprattutto delle minori, non si vede come mai l’Italia registri riduzioni della pratica ormai adottata prevalentemente dalle immigrate. Proviamo a pensare che cosa farebbe la più restia ad accettare l’interruzione volontaria della propria gravidanza, diciamo la cattolica più osservante, se restasse incinta la sua bambina di quindici anni. Andrebbe al consultorio? ad un ospedale pubblico? Davvero sono finiti i ferri da calza e il prezzemolo, ma nessuno è privo di 500, 1000 euro per ricorrere all’ambulatorio privato. Abbiamo dunque un impegno preciso: sono prossime le elezioni europee e forse tocca a noi aiutare a salvare la democrazia dei diritti.

 

 

16 Gennaio 2014Permalink

5 gennaio 2014 – Una storia forse squallida, forse grottesca

Segue uno schema di racconto con il collegamento ai link che consentono a chi voglia saperne di più la lettura dei vari pezzi nel mio blog che, volta per volta, saranno raggiungibili facendo clic sulla parola [qui]
Il tentativo di inserire le immagini del dépliant non è ben riuscito. Correggerò appena possibile

Il 24 gennaio ho aggiungo come mio commento un articolo uscito sul n. 224 di Ho un sogno

La storia nel mio blog comincia il 26 luglio 2013 quando scopro e segnalo che su un dépliant che informa gli utenti dell’azienda ospedaliera in merito ai vari servizi compare la seguente disinformazione:

Denuncia  di nascita
COSA SERVE: documento di identità valido di entrambi i genitori, se stranieri non residenti passaporto o permesso di soggiorno valido
    
[qui]     guida rapida1

E’ evidente che, a norma della  Circolare del Ministero dell’interno n. 19 del 7 Agosto 2009, la dizione scelta dall’azienda ospedaliera è improponibile  (ma, trattandosi di denunce di nascita agisce su delega del sindaco che di tali atti è responsabile: sciatteria su tutti i fronti!)

Il 28 luglio riporto qualche notizia  sulle mie immediate segnalazioni ad esponenti del comune di Udine (sia a livello di giunta che di consiglio)
[qui]
e presento una segnalazione all’azienda ospedaliera il cui testo trascrivo il 4 settembre
[qui]

Il 28 settembre trascrivo la risposta dell’ospedale che si impegna alla correzione del dépliant
[qui]

Il 4 ottobre due amiche scrivono al sindaco e ottengono risposta
[qui]

Da parte mia visito regolarmente la bacheca nell’atrio dell’ospedale, accanto all’ufficio informazioni,  per vedere se l’impegno preso dalla Direzione il 28 settembre 2013 viene rispettato o disatteso.
Ieri, 4 gennaio 2014, trovo il dépliant corretto dove la dizione relativa alle denunce di nascita è così modificata:

Denuncia  di nascita
COSA SERVE: documento di identità valido di entrambi i genitori
Il nuovo dépliant è datato dicembre 2013.    guida rapida2.pdf

Un piccolo passo avanti ma non è l’ultima puntata di questa squallida storia: da cinque anni mi impegno per la modifica della norma modificata dall’ineffabile allora ministro Maroni, uno dei coraggiosi lottatori che hanno identificato in alcuni  neonati  il n emico da combattere e vincere ‘ad maiorem Bossi gloriam’.
Naturalmente, se vengono –come vengono – lasciati fare, prevarranno come prevalgono.
Diceva Nelson Mandela:  “Disumanizzare l’altro significa inevitabilmente disumanizzare se stessi”.

5 Gennaio 2014Permalink

5 gennaio 2014 – Per una storia del cristianesimo europeo meno cattocentrica

 

Kaj Munk (1898-1944), martire della resistenza danese

da: http://www.voceevangelica.ch/miscellanea/miscellanea.cfm?item=1097

(Paolo Tognina) La sera del 4 gennaio 1944 membri del “gruppo Skorzeny“, il commando autore della spettacolare liberazione di Mussolini sul Gran Sasso d’Italia, inviati da Berlino, su ordine di Himmler, rapiscono il pastore luterano danese Kaj Munk. Il mattino dopo, sulla strada di Hörbylunde Bakke, nei pressi di Silkeborg, viene ritrovato il suo corpo, crivellato di colpi. L’8 gennaio 1944 una grande folla assiste ai funerali del pastore, drammaturgo e giornalista, che viene sepolto nel piccolo cimitero di Vedersoe, sulla costa occidentale dello Jütland.

“Si dice che il cristianesimo non debba occuparsi di questioni politiche e che la chiesa debba occuparsi soltanto della salvezza delle anime“, aveva detto Munk, nel novembre del 1941, in una predica. “È una gran bella religione, che piace all’imperatore e alla quale sua maestà concederà certamente la propria protezione. Una simile religione non gli darà mai fastidio. Ma è una religione che merita il nome di bestemmia. La verità non è tranquilla e piena di dignità e ossequiosa; al contrario, la verità morde e urta e colpisce. La verità non fa per i timorosi e per i prudenti; questi non hanno bisogno della verità, bensì di un divano. Che insulsa richiesta è mai quella che pretende dalla chiesa un atteggiamento prudente? I martiri erano forse prudenti?. Il popolo danese deve smettere di avere paura se non vuole correre il pericolo di morire per eccesso di prudenza“.

Kaj Munk è nato nel 1898 a Maribo, sull’isola di Lolland. I suoi genitori morirono quando era ancora ragazzino e fu perciò adottato da una coppia di parenti. Crebbe in un ambiente contadino, impregnato dagli insegnamenti del pietismo danese di Grundtvig.
Da adolescente cominciò a scrivere ballate, poesie e drammi. E negli anni trascorsi a Copenhagen come studente in teologia accarezzò l’idea di abbandonare l’università per dedicarsi completamente alla letteratura. Ma i genitori adottivi, che avevano fatto non pochi sacrifici per mantenerlo agli studi, glielo impedirono.

Dal 1924 fino alla morte, Munk visse e lavorò come pastore a Vedersoe, sulla costa atlantica dello Jütland. Sposato, padre di cinque figli, curatore d’anime e predicatore, appassionato cacciatore, non smise mai di scrivere. Nel 1928 il suo dramma “En Idealist“ fu messo in scena al Teatro Reale di Copenhagen, con scarso successo. La sua popolarità quale autore drammatico fu decretata dal dramma “Cant”, messo in scena quattro anni dopo. La sua fama si consolidò con i drammi “La Parola“ (da cui il regista Theodor Dreyer ricavò, nel 1955, il celebre film “Ordet“) ed “Egli siede al crogiuolo“. Il primo si basa su una vicenda realmente accaduta a Vedersoe: la morte di una giovane donna, deceduta, insieme al figlio, durante il parto. Il secondo, scritto nel gennaio 1938, è un atto di accusa nei confronti della persecuzione degli ebrei in Germania.

Nel corso degli anni ’30 Kaj Munk si dedica a una intensa attività giornalistica pubblicando, sui maggiori quotidiani danesi, articoli e commenti non solo su temi ecclesiastici, ma anche culturali e politici. Le sue posizioni sono spesso criticate. Giudicando il parlamentarismo poco adatto allo sviluppo di un popolo, Munk asprime più volte ammirazione per il fascismo italiano e per il suo duce e vede nella ripresa economica tedesca sotto Hitler la conferma del carattere positivo della dittatura nazionalsocialista. Munk ritiene che il carisma del dittatore possa imprimere nuovo slancio al popolo tedesco.
Le sue posizioni nei confronti dell’Italia cambiano quando Roma decide di invadere l’Abissinia (il dramma “La vittoria“, del gennaio 1936, è una dura critica a quell’avventura bellica del fascismo). E la brutalità del regime nazista nei confronti degli ebrei lo porta a distanziarsi dall’hitlerismo. Il 17 novembre 1938 pubblica, nel quotidiano Jyllands Posten, una lettera aperta al duce del fascismo nella quale chiede a Mussolini di convincere Hitler ad abbandonare la politica di persecuzione degli ebrei. Il vero destinatario della lettera è tuttavia il pubblico danese che cinque anni dopo, mettendo in salvo la quasi totalità degli ebrei residenti nel regno, traghettandoli sull’Öresund verso la libera Svezia, dimostrerà di condividere appieno il suo appello.

Dopo l’invasione tedesca della Danimarca, nell’aprile 1940, Kaj Munk diventa il simbolo della resistenza nazionale. Il suo dramma storico “Niels Ebbesen“, l’epopea di una sorta di Guglielmo Tell danese che si batte per l’indipendenza dello Jütland contro il tedesco conte Gert di Hollstein, e la raccolta di prediche “Presso i fiumi di Babilonia“ (evidente richiamo alla situazione di cattività del popolo danese, paragonata a quella di Israele dopo l’invasione babilonese) circolano clandestinamente in decine di migliaia di copie contrabbandate anche nella Norvegia occupata.
Nel 1943 Munk entra a far parte del partito d’opposizione “Dansk Samling“ e protesta contro la decisione del ministero danese per gli affari ecclesiastici di vietare ai pastori di parlare pubblicamente della resistenza della chiesa norvegese. La censura controlla la sua produzione letteraria e le librerie non possono più esporre le sue opere.
“Amare il tuo nemico non significa accettare le sue opinioni e dargli ragione. Al contrario, significa essere disposti a sputargli in faccia piuttosto che lasciargli credere, mentendogli, che tu accetti i suoi metodi. La bontà di Dio è dolce e paziente, ma non scende mai a compromessi con il male“. Kaj Munk pagò con la vita la propria fedeltà a questo insegnamento di Cristo. (fonti: “Der Märtyrer Kaj Munk, Pastor, Poet und Feind der Nazis”, Publik Forum, nr. 13, 12 luglio 1996; Paul Gerhard Schoenborn, “Vor 60 Jahren – Zur Erinnerung an die Ermordung Kaj Munks” e Paul Gerhard Schoenborn, “Der Däne Kaj Munk – Pastor, Poet, Gegner Hitlers, Märtyrer”, entrambi in www.kajmunk.dk)

NOTA: Mi fa piacere che comincino a girare notizie sulla storia d’Europa anche relative alle chiese protestanti spesso ignorate in Italia.

4 Gennaio 2014Permalink