17 febbraio 2013 – Un papa abdica

  •  Ho voluto mettere la vignetta –fulminante come le migliori di Vauro – sia perché è graziosa, fa ridere e una bella risata è un elemento liberatorio, sia perché, secondo me, tocca un punto fondamentale, quello della sofferenza di un’umanità ridotta a condizione di schiavizzazione anche per il prevalere di una concezione del mercato assente da ogni etica.
    E quando parlo di etica non intendo moralistica pietà – cui seguono, e non sempre, attività di soccorso nobili, più spesso precarie -ma l’incrocio virtuoso fra economia e diritti che solo la politica può garantire. Non bastano gli umani sentimenti, per quanto buoni siano. E’ certamente un equilibrio fragile, spesso privo di efficaci conseguenze, non soggetto a regole rigide ma che deve essere cercato dentro la realtà non imposto da un pensiero estraneo alle vicende dell’umanità.
    Tutto questo mi è venuto in mente quando ho cercato di ricacciare invano uno dei miei –e per me irresistibili- cattivi pensieri. Non riesco a togliermi dalla testa l’idea  che all’origine della decisione del pontefice in odor di pensione ci siano i problemi dell’Istituto per le Opere di Religione (IOR), tanto più roventi in un’organizzazione che lo scandalo della pedofilia ha portato con le sue conseguenze giudiziarie, al collasso finanziario almeno negli USA.
    Un recente articolo pubblicato da La Stampa mi sembra di particolare interesse e lo collego, limitandomi ad osservare che il nuovo presidente, il tedesco Ernst von Freyberg (che scadrà nel 2015) non è gradito a molti che vorrebbero vedere in Vaticano una coerenza con scelte di pace che non sembrano appartenere a von Freyberg che sarebbe anche presidente di una società che fabbrica navi da guerra.
    Aggiungo che, mentre Gotti Tedeschi ‘licenziato’ parecchi mesi or sono, faceva parte dell’Opus Dei (organizzazione non certo in odore di santità cui appartiene anche il belga De Corte, di cui per qualche giorno si è parlato come possibile presidente dello IOR) il nuovo presidente è membro del sovrano ordine di Malta.
    Non so bene cosa tutto questo significhi ma non mi sembrano particolari da ignorare tanto più che se ne parla anche in connessione con l’affaire del Monte dei Paschi di Siena..
    E non posso ridurre così intriganti coincidenze temporali a mere irrilevanti casualità. O dovrei? Non ci riesco e le scrivo nel mio diario cui ho scoperto che è utile di tanto in tanto tornare.

Il treno ha fischiato.

Mi viene da pensare a uno splendido racconto di Pirandello, Il treno ha fischiato, la storia di un poveretto la cui vita è solo lavoro di contabile che, per necessità, continua anche la sera a casa finché una notte, chissà perché, sente il fischio di un treno che rompe la sua ossessiva, totalizzante routine, tanto da stroncarlo. Pareva “gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita.”
E se fosse successo anche al papa? Se a un certo punto avesse sentito un fischio, non credo di treno ma da chissà dove, e si fosse chiesto che cosa poteva fare sulla cattedra di Pietro che non sembra appoggiare su basi esemplarmente virtuose e si fosse reso conto che cardinali esperti in alta contabilità più che in pratiche di meditazione, usi forse a leggere bilanci con più interesse che salmi, erano più forti di lui? Se si fosse chiesto se non fosse il caso –come timidamente aveva cominciato a fare (con esiti finanziariamente disastrosi) nel caso della pedofilia – di consegnare alcuni suoi collaboratori all’autorità giudiziaria, dando a Cesare quel che è di Cesare?
E se a questo punto avesse pensato a un atto di radicale rottura come l’abdicazione, ammettendo la propria irrimediabile debolezza?
Delle ragioni di una atto così dirompente si è occupata la giornalista Barbara Spinelli che ha scritto uno splendido articolo che collego, ritendo goffa ogni mia possibile ripetizione e il teologo Pietro Stefani che in una sua nota che purtroppo non ho modo di collegare con link considera le conseguenze del gesto papale come valutabili in un quadro di eterogenesi dei fini.
Quindi vedremo cosa accadrà anche a prescindere da, quali che siano, le intenzioni pontificie. 

La desacralizzazione toglie il coperchio sul santo, sul vero
Devo l’espressione che ho riportato nel titolo allo scritto di Barbara Spinelli e me ne approprio perché meglio non si potrebbe dire.
I pontefici, fino a Pio XII, si presentavano nell’ordine misterioso, un po’ magico, del sacro fra sedie gestatorie, flabelli, distanza sottolineata dalla comune umanità. Il linguaggio di Giovanni XXIII cominciò a rompere il velo che cela e a far emergere l’umanità che si consegna alla storia. Il gesto di papa Ratzinger si colloca, secondo me, in questo processo che (sempre dallo scritto di Stefani) “cambia invece definitivamente l’immagine del papa costituitasi nel XIX e nel XX secolo quando, per reagire all’assedio del mondo moderno, un sommo pontefice, ormai politicamente debole, fu soggetto a una forma di verticistica esaltazione spirituale. Non a caso il 1870 vide sia la proclamazione del dogma dell’infallibilità papale a opera del Vaticano I sia la breccia di Porta Pia compiuta dai bersaglieri”.
E se la nuova breccia di Porta Pia fosse lo IOR e i nuovi bersaglieri (eterogeneità dei fini!) il card. Marcinkus e i suoi, sembra, non troppo commendevoli successori?
Mi accorgo che rischio di creare l’immagine di un papa ‘buono’, tradito da alcuni collaboratori infedeli. Non è questa la mia intenzione.
Ci sono molte cose nel pontificato di Benedetto XVI che non voglio, né posso, dimenticare.
Vorrei riprendere, ma sarebbe troppo lungo, la terribile gaffe che fece Benedetto XVI nel 2006  a Ratisbona, citando un passaggio di un antico testo in modo tale da far indignare tutto  il mondo mussulmano. E trovo questa gaffe imperdonabile perché un professore universitario di quel livello non può permettersi citazioni mutilate e decontestualizzate.
Non voglio però dimenticare un’altra esternazione pontificia del 2010 che considero  particolarmente bruciante. Cito dal suo ‘Luce del mondo’ (pag. 171): “Vi possono essere singoli casi motivati, ad esempio quando uno che si prostituisce usa un profilattico, e questo può essere un primo passo verso una moralizzazione, un primo elemento di responsabilità per sviluppare di nuovo una consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può fare tutto ciò che si vuole. Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per affrontare il male dell’HIV. Esso. in realtà, deve consistere nell’umanizzazione della sessualità”.
La cosa più grave è che il papa ripeté questo non condivisibile concetto ai giornalisti che l’accompagnavano in un viaggio in Africa, un continente devastato dall’AIDS.
E a questo punto non posso ignorare l’immagine indimenticabile di Nelson Mandela, vicino a un bambino malato (a sostegno della campagna per l’accessibilità dei farmaci) e impegnato ad accudire il figlio morente proprio di Aids.

Concistoro e conclave. Tutto qui?

Il papa se ne va. I cardinali si consultano.
Ma non basterà. Il papa che sarà eletto dovrebbe farsi carico di un concilio. E in quel concilio dovrebbero aver voce i profeti del nostro tempo.
Poco fa ho citato Mandela e certamente nelle storia dell’oggi ce ne sono altri.
Non so se basti l’abdicazione di un pontefice a far sì che la loro voce venga ascoltata per quanto forte parli.
Molti hanno scritto: ‘d’era in poi nulla sarà come prima’. Ho paura. Che riescano a massacrare anche quello che del concilio ha resistito a papi, cardinali, vescovi e a un popolo distratto?

19 febbraio
Collego al blog del giornalista Stille che segnala altri fatti interessanti, relativi al pontificato che si conclude.

17 Febbraio 2013Permalink

13 febbraio 2013 – Il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti

GIUSEPPE DOSSETTI     7. febbraio . 2013    su REPUBBLICA, ediz. Emilia/Romagna

Giancarla Codrignani

Il 13 febbraio Giuseppe Dossetti compirebbe cento anni. Non è una ricorrenza formale: è stato un uomo davvero “memorabile”, che va ricordato (forse rimpianto) a prescindere dalla retorica delle celebrazioni. La Fondazione per le Scienze Religiose della nostra città ha – tra le altre istituzioni cattoliche e laiche – organizzato la giusta serie di commemorazioni che l’importanza del personaggio comporta e che avrà il suo momento più alto nel ricordo del “Dossetti Costituente” alla Camera dei Deputati martedì prossimo, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Vale davvero la pena di fare memoria di un uomo che ha dato testimonianza di sé nella fede religiosa e nella complementare (e coerente) laicità: ovviamente, è risultato scomodo sia ai politici democristiani che non ne comprendevano la radicalità, sia alle componenti del clero ancora convinte di vivere nel regime di una cristianità per sempre immobile. Per la generazione più giovane – che è già molto se ne conosce il nome – va ricordato questo personaggio apparentemente enigmatico che da democristiano votò contro il Patto Atlantico (in tempi in cui il “compromesso storico” era del tutto impensabile); che fu candidato sindaco contro un altro Giuseppe, il Dozza comunista di fama internazionale per il suo buon governo democratico (il Centro studi del Mulino verificò che perfino i conservatori votarono contro il programma dossettiano poco indulgente, diremmo noi, alle detassazioni); che si fece prete e accompagnò al Concilio il cardinal Lercaro (scrivendo per lui un celebre intervento sulla povertà – anche della Chiesa – che è la parte incompiuta del Vaticano II); che si fece monaco e portò i suoi seguaci in Palestina (da uomo di pace, ma sempre nella scelta dei più poveri) a studiare quella Scrittura che era stata il costante alimento della sua cultura; che tornò a prendere posizione politica in una sorta di sequela dei profeti biblici a difesa di quella Costituzione che aveva segnato, dopo la Resistenza, la partecipazione alla politica di un cristiano davvero “impegnato”. Era il maggio del 1994, quando si manifestavano i “propositi di modificazione frettolosa e inconsulta… dei presupposti supremi in nessun modo modificabili” della nostra Carta fondamentale ed erano ormai evidenti i rischi per la stessa democrazia ad opera di “una figura di grande seduttore”: don Dossetti evocò allora, nel commemorare a Milano un altro grande personaggio cattolico, Giuseppe Lazzati, il profeta Isaia (21, 11): “Sentinella, quanto resta della notte?”.

Evidentemente non siamo ancora usciti dalla notte. Evidentemente non siamo stati abbastanza vigilanti. Il “seduttore” ha usato le sue arti e suscita nuova preoccupazione nel mondo per le sorti di quell’Italia i cui cittadini non sono ancora così attenti ai loro diritti di cittadinanza da capire che chi vuole rimborsare l’Imu non riparerà più le strade, non pagherà i trasporti pubblici, chiuderà gli asili dei bimbi, compiti dei Comuni senza più risorse. Evidentemente Isaia continua a ricordarci che viene il mattino e poi anche la notte e per questo occorre discernere e convertirsi (che per il profeta dell’ottavo secolo a.C. significava predisporre pane per i profughi dalla guerra): difficile mentre ancora circolano in mezzo a noi e ci corrompono i “mariuoli”, gli intoccabili, i mafiosi, gli eletti passati in giudicato.

Non possiamo sapere se Dossetti, qualora avesse avuto la sorte del suo confratello di fede Arturo Paoli da poco centenario e tuttora sempre “vigilante”, avrebbe disperato della nostra pervicacia nel degradarci e si sarebbe ritirato nel deserto. Ma la voce valida per noi resta quella pronunciata nei suoi discorsi, che sono da rileggere da parte di una Chiesa che deve pensare di più al suo messaggio fondativo, rileggendo a misura del nostro tempo il vangelo, e da parte di una società che deve dare prova di credere in Dio, se ha fede, ma – che creda oppure no – sappia testimoniare la sua fede nell’umanità.

Ringrazio l’amica Giancarla che mi ha inviato questo suo articolo, raggiungibile anche da qui.

13 Febbraio 2013Permalink

11 febbraio 2013 – Giovani stranieri e giovani italiani, quel che conta è renderli innocui.

Voto agli studenti? NO

Leggo che agli studenti all’estero per un Erasmus è negato il voto nei consolati e pure il biglietto aereo low cost. Che disgusto!
Per informazione collego a un articolo di Repubblica.

Malato al CIE       

Lettera aperta al
Prefetto di Gorizia
dott. Maria Augusta Marrosu

Sulla stampa di questi giorni è possibile leggere una accorata segnalazione dei Medici per i Diritti Umani (MEDU) che denunciano le precarie condizioni sanitarie di un “ospite” del CIE, tal M., giovane migrante trattenuto in quelle strutture dal 2011.

Nel leggere l’odissea di questo ragazzo che fa la spola tra il CIE di Gradisca e quello di Trapani da 14 mesi, sono colto da un mix di fastidio e senso di impotenza anche perché, in quelle strutture, casi come questi si susseguono in un colpevole silenzio delle istituzioni.

Secondo i Medici per i Diritti Umani, che da tempo seguono il calvario di M, le condizioni psico-fisiche del giovane sono in costante peggioramento e incompatibili con il trattenimento all’interno del CIE. La grave sindrome depressiva reattiva di cui soffre il ragazzo lo ha portato a compiere più di un atto di autolesionismo grave e tale da richiedere dei brevi ricoveri ospedalieri, oltre che a determinare un calo ponderale di 10 Kg di peso.

Spiace ricordare come lo Stato troppo spesso si comporti con due pesi e due misure in rapporto al censo, e che in un caso analogo, certamente non unico, abbia provveduto alla scarcerazione dell’ex ministro della sanità Francesco De Lorenzo perché secondo i periti “emerge un significativo peggioramento delle condizioni fisiche e psichiche, tale da far fondatamente ritenere il paziente in pericolo di morte, se non si interviene con adeguata terapia farmacologia e psicoterapica in ambiente (sia ben chiaro) radicalmente diverso da quello carcerario“.

Ora, se è difficile verificare quanto attestato dai medici del MEDU, è altrettanto vero che la procedura per entrare  al CIE sembra sia stata pensata esclusivamente per impedire agli eventuali visitatori un’accesso tempestivo alla struttura. Dico questo perché trovo inspiegabile il fatto che un consigliere regionale possa entrare anche nei carceri di massima sicurezza semplicemente esibendo il suo tesserino di riconoscimento e non possa fare altrettanto al CIE.

Considerato che nel momento stesso in cui un cittadino viene privato della libertà personale è compito dello Stato occuparsi della sua salute e garantirgli le cure adeguate, con la presente sono a chiederLe di verificare la fondatezza delle notizie apprese a mezzo stampa e, nel caso, adottare gli stessi provvedimenti che hanno permesso a suo tempo la scarcerazione dell’onorevole Francesco De Lorenzo.

Distinti saluti.

Stefano Pustetto
Consigliere regionale SEL

Un commento inutile

Mi fa piacere che un consigliere regionale sia entrato al CIE e ne abbia dato pubblicamente conto (la lettera aperta mi è stata girata da un’amica che ringrazio). Mi fa piacere anche perché in questo caso si è seguita la strada più corretta, quella che, se praticata con costanza, può dare qualche risultato.
Un esponente dell’istituzione regionale si è assunto la sua responsabilità e ne ha dato pubblica ragione.
E’ ben diverso dalle pigre populistiche abitudini dei politici che si aggregano alle manifestazioni di piazza, stile ‘uno fra voi’. Il loro ruolo non può risolversi in una esibizione, peggio se da consenso pre elettorale.
E adesso attendiamo la risposta del Prefetto.

11 Febbraio 2013Permalink

9 febbraio 2013 – Una firma per un caso

Ho firmato e chiesto ad alcuni amici di firmare (pubblicando anche su facebook la mia adesione) la petizione che potete raggiungere facendo clic sull’indicazione che segue. Visualizza la petizione: |
Poi ho ricevuto di nuovo il testo della petizione che ora non voglio trascurare. Eccolo:

Sono la mamma di Cristian, un ragazzo con sindrome di Down che, pur essendo nato in Italia non è italiano, perché io sono cittadina colombiana e il padre italiano non lo ha riconosciuto.

Al compimento della maggiore età Cristian ha provato a inoltrare la richiesta di cittadinanza italiana (come prevede la legge n. 91/92 l’istanza può essere presentata, per i nati in Italia, fino al compimento del 19mo anno di età). Ma ancora prima di entrare nel merito della questione, è bastato alla prefettura sapere che Cristian è persona con sindrome di Down per ritenerlo non idoneo a prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica, atto necessario per la convalida del decreto di cittadinanza.
Sia all’anagrafe che in prefettura, mi hanno detto: secondo la legislazione italiana, può ottenere la cittadinanza solo chi sia in grado di manifestare «autonomamente la propria volontà e il desiderio di diventare cittadino».

Se è certamente possibile che alcune persone con sindrome di Down, o con altra disabilità intellettiva, non comprendano il senso di quanto devono giurare, è altrettanto vero che tale incapacità non può essere presunta a priori per tutti.
Impedire a Cristian di accedere a tale diritto si traduce in un atto di discriminazione basata sul suo stato di persona con disabilità, violando l’art. 18 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 18/2009.

Cristian è nato nel nostro Paese e vorrebbe che il suo essere cittadino italiano di fatto fosse riconosciuto a livello giuridico, cosa che sarebbe possibile semplicemente prevedendo l’acquisizione per “ius soli” cioè per nascita nel territorio italiano.

Nonostante sia uscita la notizia che il Ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri abbia richiesto una risoluzione del mio caso, a tutt’oggi non ho ricevuto alcuna comunicazione ufficiale. Chiedo pertanto che venga risolto il caso di mio figlio e che l’ufficio legislativo del Viminale lavori alla stesura di un disegno di legge, da lasciare pronto per l’avvio della prossima legislatura, che eviti per il futuro il ripetersi di casi simili.

Questo messaggio è di Gloria Ramos, il creatore della petizione Cittadinanza per Cristian, discriminato in quanto disabile che hai firmato su Change.org.

Non solo un caso

La signora Ramos, mamma di Cristian, dice una cosa importantissima “Chiedo pertanto <…> che l’ufficio legislativo del Viminale lavori alla stesura di un disegno di legge, da lasciare pronto per l’avvio della prossima legislatura, che eviti per il futuro il ripetersi di casi simili”.
E’ emozionante trovare una cittadina (in questo caso non italiana ma residente in Italia) che ha capito quello che sfugge a politici, aspiranti a un seggio al Parlamento e, se non al Parlamento, a una qualche regione o comune e persino a esponenti della società civile. Risolvere un caso è un atto riparatorio di giustizia negata ma UN CASO può essere una spia di pessima, confusa legislazione costruita (da incompetenti o irresponsabili) su spinte di lobbies e non sul rispetto di norme fondanti la nostra convivenza che pur ci vincolano.
Purtroppo ho verificato molti esempi di questa malinconica deriva che ci umilia tutti.
La signora Ramos richiama tutti alla responsabilità, all’etica e alla competenza necessarie a chi ci rappresenta e ci rappresenterà.
Il mio commosso grazie alla mamma di Cristian.

E voglio proseguire

Chi legge il mio blog sa bene come da anni io mi occupi della registrazione anagrafica negata in legge a chi non ha il permesso di soggiorno.
Il mio è un chiaro fallimento, ma nella mia etica ci sono impegni che prescindono dal successo e perciò mi ostino e ora voglio leggere le mie considerazioni in parallelo a quanto scrive la signora Ramos, sostenendo – da cittadina che sa leggere i segni positivi che il nostro tempo riesce ancora ad offrire – la causa di suo figlio.

Scrive la signora Ramos: che suo figlio ‘pur essendo nato in Italia non è italiano, perché io sono cittadina colombiana e il padre italiano non lo ha riconosciuto’.
Sorvolo sul ‘padre italiano’ (la cui scelta di negarsi a un figlio è legittima per quanto ripugnante) e ricordo che – in parallelo – ci sono padri che vorrebbero registrare all’anagrafe i propri figli, sottraendoli così al destino di apolidi. Questi padri però (e madri evidentemente la cui condizione è in qualche modo e per un certo tempo meglio protetta) al momento della richiesta di registrazione in comune devono presentare il permesso di soggiorno e, se non ce l’hanno (quale che sia la ragione), rischiano l’espulsione e quindi l’abbandono coatto del figlio. E’ vero che la madre potrebbe tenerlo con sé ma se la coppia volesse restare unita (sostenitori della famiglia procreativa dove siete?) e portare il figlio con sé, nonostante l’assenza di qualsiasi registrazione che testimoniasse la loro genitorialità, potrebbero trovarsi nella condizione di rapitori di bambini. Quindi si nascondono e nascondono il piccolo se non è stato loro possibile giovarsi della volatile circolare che consente la registrazione del nuovo nato.
Questa infamia (ha altre definizioni la negazione di paternità e maternità riconosciute e certificate come si conviene nella società civile?) funziona dal 2009, da quando cioè fu approvato il cosiddetto ‘pacchetto sicurezza’. Prima sia la legge Turco Napolitano, sia la Bossi Fini non richiedevano l’esibizione del permesso di soggiorno per la registrazione delle nascite. Rinvio, per altre informazioni, al tag anagrafe.
Naturalmente le mie sono ipotesi relative a una non remota possibilità.
Casi concreti non ne conosco e se li conoscessi non li dichiarerei
Testimonianze della situazione si possono trovare nella documentazione del gruppo CRC che qui collego (si veda il cap. 3.1)

Io spero che ci sia un intervento efficace per il figlio della signora Ramos ma so che i rappresentanti politici da me interpellati e i rappresentanti di quella che viene ancora chiamata – chissà perché – società civile hanno negato qualsiasi attenzione al problema della mancata registrazione anagrafica, pur prevista per tutti dalla legge 176/1991 (legge di ratifica alla Convenzione di New York sui diritti dei minori).

9 Febbraio 2013Permalink

7 febbraio 2013 – Bambini proibiti in Svizzera e non solo.

Riprendo dal numero di gennaio (n.215/2013) del mensile Ho un sogno la recensione di un libro che era già stato annunciato in questo blog.

Marina Frigerio Martina BAMBINI PROIBITI – Storie di famiglie italiane in Svizzera tra clandestinità e separazione COLLANA Orizzonti pp. 208 Casa editrice IL MARGINE  Via Taramelli n.8 – 38122 Trento € 16,00

Il 25 aprile 2012 ho scritto in merito a ‘La mia casa è dove sono felice’, quattordici racconti di emigranti italiani e immigrati stranieri, che sono “la stessa cosa vista da due punti di vista diversi” come puntualizza l’autore, Max Mauro, che ne ha raccolto le storie.
Fra queste c’è la vicenda di un bambino nascosto, figlio di migranti stagionali cui la legge svizzera impediva di tenere con sé i propri figli, costringendo molti genitori a nascondere letteralmente i bambini o farli crescere in collegio.
Ines, una ragazza friulana che si era sposata con il fidanzato che l’aveva raggiunta in Svizzera dove lavorava, quando le nacque un bambino (‘solo le stupide rimangono incinte’ l’aveva ammonita la padrona di casa) si trovò in una situazione drammatica.
Dove lasciare il piccolo, che doveva restare invisibile, per poter lavorare senza separarsene?
La giovane coppia ebbe l’aiuto di amici ma mai la tranquillità che sarebbe necessaria per crescere un figlio perché la fremdepolizei (la polizia degli stranieri) vigilava con attenzione sulla minaccia infantile.
E oggi quel bambino in un lavoro recente, una ricerca di Marina Frigerio Martina di cui Max Mauro ha scritto la postfazione, svela la sua identità. E’ lo stesso Max tornato con i genitori in Italia ancor piccolo che, dopo essersi negato il ricordo degli anni vissuti come ‘bambino nascosto’, ora si rivela a se stesso: “Tra la nascita, e l’infanzia cosciente cominciata in un paesino della pianura friulana, c’era qualcosa che aveva lasciato delle tracce profonde ma, paradossalmente, invisibili. Qualcosa di cui in casa non si parlava, in nessuna casa di emigranti rientrati”.
E questa negazione della memoria richiama a Max Mauro l’incipit de I sommersi e i salvati di    Primo Levi: “I ricordi che giacciono in noi non sono incisi sulla pietra”.
Ma il dolore può pietrificarli ed estrarli dalla pietra che li blocca è un duro, doloroso, necessario lavoro e deve essere fatto perché la memoria entri, com’è giusto, in una pagina che non è solo personale ma elemento della storia europea.
Ci è stato detto che la clandestinità è criminalità, e molti l’hanno creduto. In troppe circostanze nel passato e nel presente una creatura umana deve essere protetta nell’ombra perché la luce cui ha diritto potrebbe distruggere, se non la sua vita, i suoi rapporti più cari.
La cittadinanza, nata come concetto a fondamento dell’uguaglianza, è diventata per una coscienza diffusa privilegio che ha spezzato, persino per i neonati, la continuità uomo-cittadino. E questa tragica frattura oggi in Italia si ripropone.
Sulla copertina del libro della Frigerio c’è un bambino che regge un cartello ‘Voglio restare con il mio papà’. E’ evidentemente un piccolo figlio di emigranti le cui storie sono narrate in quel volume. Oggi un bambino immigrato in Italia potrebbe scrivere: “Voglio avere un papà” perché la legge italiana nega anche questo a chi non ha un permesso di soggiorno.

7 Febbraio 2013Permalink

1 febbraio 2013 – calendario febbraio

3 – 1985   – Sudafrica. Desmond Tutu è il primo vescovo anglicano nero.

4    1945  – Si apre a Yalta la Conferenza tre Roosvelt, Churchill e Stalin–

6 – 1992  – Muore David Maria Turoldo

10 – 1990  – Sud Africa: De Klerk annuncia la liberazione di Mandela

11 – 1929  – firma dei patti Lateranensi

11 – 2011  – Dimissioni di Mubarak

11 – 2013  –  Dimissioni del pontefice Benedetto XVI

12 – 1938  – Anschluss: le truppe tedesche entrano in Austria

14  – 1989  –  Iran: Khomeini emette una fatwa contro Salman Ruschdie

15  – 1945  – Bombardamento USA di Dresda

17  – 1600 –  Roma – Rogo di Giordano Bruno, condannato per eresia

18 –  1984  – Firma del Nuovo Concordato fra Italia e Santa Sede

19  – 1937 .- Giorno dei martiri etiopici * (vedi link in calce)

20 -1958  –  Approvazione della legge Merlin

22 -1943   – Esecuzione capitale dei membri della ‘rosa bianca’

23  1903  – Cuba affitta ‘in perpetuo’ agli USA la base di Guantanamo

24  1990  –  Morte di Sandro Pertini

26  1991  –  Si scioglie il patto di Varsavia

27  1933  –  Incendio del Reichstag

28  1986  –  Assassinio del primo ministro svedese Olaf Palme
28   2013 –  abicazione papa Benedetto XVI
28   2013 –  confessione Sergio De Gregorio

•          * NOTA: A seguito di un attentato al maresciallo Graziani le truppe italiane in Etiopia perpetrarono una delle tante stragi che caratterizzarono questa occupazione.
Poiché l’argomento è poco noto (e a me sembra di grande attualità nel risorgente razzismo)
inserisco alcuni link

http://www.anpi.it/media/uploads/patria/2006/6/09-13_DE_PAOLIS.pdf
http://www.rastafari-regna.com/sezioni/giornomartiri2010.html
http://www.storiain.net/arret/num146/artic5.asp
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2006/05/22/etiopia-quella-strage-fascista.html

5 Febbraio 2013Permalink

30 gennaio 2013 – Italiani brava gente

Brava gente! Mah
Credo che l’articolo che qui segnalo e che qui di seguito potete leggere servendovi del link sia molto importante.
L’autore é Simon Levis Sullam che insegna Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari, Venezia E’ autore, tra l’altro, de L’archivio antiebraico (Laterza 2009) e tra i curatori della Storia della Shoah (UTET 2006-2010).  Alle sue considerazioni aggiungo il divieto di matrimoni fra e con ebrei e la cacciata di studenti e insegnanti da tutte le scuole, dalle elementari all’università.

 

30 Gennaio 2013Permalink

27 gennaio 2013 – Giornata della memoria

27 gennaio: la giornata della memoria o meglio delle memorie, dove Auschwitz  si impone come simbolo di altre tragedie e l’orrore della shoah si accompagna ad altri orrori e a questi si salda.
Lo scrittore bosniaco
Božidar Stanišić, ora cittadino italiano (ha dovuto lasciare la sua terra durante l’esplosione di violenza dei primi anni ’90) ci presenta tre racconti dello scrittore Ivo Andrić.
I racconti del
premio Nobel si intrecciano ai ricordi di Stanišić e la scomparsa della comunità ebraica di Sarajevo ad opera del nazismo ci coinvolge nella visione della peste presente nella storia europea attraverso il dialogo di due voci, l’intuizione profetica di Andrić e l’esperienza vissuta da Stanišić.

La cravatta di zio Stipo

Zio Stipo era un amico sarajevese di mio padre. Ogni volta che veniva a Visoko a trovare sua sorella, passava anche da noi. Io, che allora ero molto piccolo, trovavo molto interessante la sua cravatta a farfalla, inconsueta in quella piccola località, e soprattutto il modo, per me molto buffo, in cui talvolta digrignava la sua dentiera. Quei denti producevano uno strano suono, come uno stridio… Morì in tarda età, alla fine degli anni ottanta, al tempo in cui si annunciava la disgregazione della Jugoslavia e le nuvole tempestose della storia si accumulavano sopra la Bosnia.
Mi trovavo per caso in visita ai miei proprio il giorno in cui mio padre era tornato dal funerale di Stipo. E così, mi ricordai anche del suo farfallino e dello stridio della sua dentiera. Le informazioni di mio padre furono brevi. Stipo era stato un idraulico; cantava in un coro di Sarajevo. La cravatta a farfalla gli piaceva, così come gli abiti scuri da cerimonia e le camicie bianche, perfettamente stirate. Era rimasto senza denti in un giorno di prima estate del 1941, nell’ingresso dell’edificio di Marijin Dvor, a Sarajevo, dove abitava allora. Lo bastonarono gli ustascia che, proprio mentre lui entrava nel palazzo, stavano portando fuori il loro bottino, tutti i beni razziati negli appartamenti di ebrei e di serbi.

Croato e cattolico, ma non come voi

Alle sue proteste, gli ustascia rimasero allibiti. Ancora di più quando, alla loro domanda se fosse croato e cattolico, lui rispose di sì, ma non come loro. Lo picchiarono a sangue, lo calpestarono con i loro stivaloni e lo colpirono con i calci dei fucili, tanto che rimase senza un solo dente. Sfuggì alla morte per miracolo, fu salvato da sua sorella che si era buttata disperatamente sopra il suo corpo martoriato.

In quello stesso cruento 1941, durante il quale migliaia di sefarditi e ashkenaziti sarajevesi, assieme a serbi, rom e comunisti furono vittime dei pogrom nel nuovo Stato Indipendente di Croazia, satellite del Terzo Reich, inizia il racconto di Ivo Andrić Buffet Titanik [i] la storia di Mento Papo, un misero oste sefardita, e di Stjepan Ković, il suo assassino.

Buffet Titanik ha tutte le caratteristiche dello stile di Andrić e della sua infallibile percezione della realtà. Tuttavia, sembra qui che il peso della dimensione semantica spinga in secondo piano tutto ciò che costituisce la pura componente narrativa. Dall’immagine introduttiva di questo racconto, con una lingua vicina alla testimonianza documentaria su un periodo buio, Andrić ci indirizza verso una delle zone periferiche della Sarajevo di allora. E qui si esprime la sua innata tendenza ai toponimi fortemente denotati e alla precisa situazione dell’azione.

Arriviamo così a un piccolo buffet dal nome curioso, in un ambiente degradato della periferia urbana, e a Mento Papo, il suo proprietario, più noto con il nomignolo di Hercika che, come il narratore ci dimostra, è ben lontano da ogni personaggio reale o letterario della comunità sefardita sarajevese.

Hercika

Dedito all’alcol e al gioco fin da giovane, Hercika viene rifiutato dalla sua comunità, per la quale è un uomo perduto e, come lo scrittore sottolinea, una pecora rognosa, che vive la sua vita fra piccole canaglie di periferia e con la sua compagna Agata, con la quale è costantemente in lite. Quando, nella primavera del 1941, viene proclamato lo Stato Indipendente di Croazia e inizia l’ascesa scellerata degli ustascia, l’unica proprietà di Hercika rimane la sua miserabile bettola. Lui non ha né oro, né soldi, né i preziosi vagheggiati dagli ustascia. Estraniato dalla sua comunità per il suo modo di vivere, è lontano sia dai suoi confratelli che da ogni stereotipo che i nazisti e i loro fiancheggiatori in Europa hanno sugli ebrei.

Prima che alla porta del Titanik bussi il futuro assassino del proprietario di quella squallida osteria, Andrić ci guida nei labirinti del terrore di Hercika, provocato anche dal presagio di quel sabato nero che, nelle insulse frecciate di certi avventori, Hitler aveva progettato per i jehudije (giudei). Del Führer lui sa poco, anzi nulla, tranne una confusa idea del male che, messo in moto dalla volontà del pretendente al dominio sul mondo intero, sta per travolgere anche lui. Si difende dalle maligne battute in osteria dicendo che lui è il capitano del grande trans-at-lant-ico Titanic.

Nel viaggio attraverso il labirinto del terrore e dell’angoscia di Hercika di fronte a quel male grande e inimmaginabile, Andrić isola il suo personaggio inserendo nel racconto la viva storia, e riproducendo dettagliatamente l’atmosfera che in quei mesi primaverili si creò anche nella periferia di Sarajevo.

Hercika viene dapprima abbandonato da Agata, poi da tutti gli altri. Al Titanik passerà solo il facchino Nail, uno dei regolari avventori musulmani, atterriti dalla violenza del male che si sta avvicinando anche al miserabile oste della via Mutevelića. Il balbettio di Nail, che cerca le parole giuste, trova una sola espressione compiuta, in quel momento la più vicina a quel piccolo uomo: tremenda politica [ii] – dice Nail mentre beve il suo ultimo bicchierino di grappa al Titanik.

Nei giorni di lavoro forzato, quei tempi difficili riuniranno anche ciò che fino allora era stato inconciliabile – Hercika, la pecora rognosa, e la comunità che lo aveva bandito. Ma è solo una riunione apparente nel dramma della comune sciagura, durante il lavoro di sgombero delle macerie causate dai bombardamenti: lo scambio di qualche saluto, il desiderio di Hercika che qualcuno gli spieghi che cosa sta succedendo, il silenzio [iii] degli altri – e questo è tutto. Anche in quella circostanza lui rimane un altro, fra altri che sono separati e diversi.

L’odio di Stjepan

Prima di quel bussare alla porta del Titanik, abbiamo nel racconto un altro labirinto, parallelo a quello di Hercika e inserito nella storia della vita di Stjepan Ković. A ogni episodio di quella vita Andrić conferisce una particolare risonanza e ciascuno di essi, sembra, ci guida verso la questione su dove nasca veramente il male e se questo, in assoluto, esista al di fuori dell’uomo.

Andrić, come nel caso dei personaggi più sconvolgenti delle sue opere con questo tema, non separa le radici del male nella psiche dalle manifestazioni della realtà nella quale essa si forma. Così Stjepan Ković, che ha vissuto tutte le sue maschere come fuga e rifugio da sé e dagli altri, vive allo stesso modo anche l’ultima maschera, quella di ustascia. E in quest’ultima cerca di avvicinarsi al suo vero volto, che non era in grado di rassegnarsi a un modo di vivere modesto e mediocre. Avendo trascorso la sua vita insicuro di tutto, tranne che della sua brama di diventare un giorno qualcuno e di far in modo che gli altri riconoscessero la sua esistenza, quell’uomo tormentato e tormentoso fin dall’infanzia, quando si rende conto che a tanti individui, fino a poco prima anonimi, l’uniforme ustascia conferisce un’importanza che prima non avevano, decide di indossarla anche lui. In conformità con il nuovo abito, Stjepan Ković si sforza di trovare dei motivi propri per l’odio verso gli ebrei. Alla fine richiama alla memoria il racconto della madre che andava a frustare Barabba [iv] l’immaginario ebreo maledetto colpevole per la morte di Gesù Cristo in quella costruzione clerical populistica. Una forza strana, dice Andrić, gli spalanca davanti lontani orizzonti dimenticati… E così ricorda anche la storia della zia sul disonesto commerciante ebreo.

E questo è tutto. Ma non riesce comunque a foggiare la maschera dell’odio e a indossarla mentre si avvicina al Titanik. Lo tormenta di più la maschera della risolutezza, della spietatezza e del potere, che non si incolla assolutamente al suo viso.

Hercika, l’ebreo senza oro e senza preziosi, vittima predestinata in un invisibile gioco d’azzardo con l’attimo della storia in movimento, nella semplicità della sua scelta pare non aver avuto il tempo di approntare una maschera per sé, per potere, sotto la sua protezione, tentare di difendersi dal male almeno per quel giorno. Quando quel sabato nero si avvera (è sabato, per ironia della sorte, e lui non è neppure un ebreo praticante), l’unica sua arma di difesa diventa la lingua di cui si serve e il liquore che offre a Ković nel tentativo di rimandare la fine ineluttabile. In quel momento il suo eloquio, messo in moto dalla paura, si trasforma in un gioco con l’assassino e con la morte stessa. Ma il gioco e il ricamo di parole non saranno d’aiuto per il proprietario del Titanik.

La scomparsa di una comunità

Nella metafora della scomparsa dell’intera comunità ebraica di una città, per l’Hercika di Andrić non ci sarà un altro mattino. Non ci sarà neppure l’oro per il suo uccisore, indotto all’assassinio proprio dal delirio della rabbia per non aver realizzato se stesso. In quel momento finalmente si risveglia l’odio verso Hercika, ma solo come verso un essere che non è in grado di aiutarlo a sentirsi davvero qualcuno e qualcosa. Lo sparo nell’angolo dove il miserabile ebreo agita le mani, saltella e ballonzola, come se corresse a zig zag fra le saette, non rappresenta un punto fermo per tutti i paradossi di questo incontro nell’ambiente claustrofobico del Titanik. Da quel punto, infatti, germoglia e cresce un enorme interrogativo. Sul male, sulle radici e i percorsi dello sviluppo della mostruosità nell’essere umano, sulle ragioni della brama di potere delle quali nessuna, in effetti, è al di fuori della realtà e della storia di qualsiasi epoca, e neppure di questa, al centro dell’interesse di Andrić.

Danilo Kiš riteneva che fosse impossibile immaginare sei milioni di ebrei vittime dell’Olocausto. Ma è possibile immaginarne uno, colui che si chiamava Eduard Kiš, suo padre, nelle sue opere chiamato Eduard Sam. Anche Andrić, a suo modo, implicitamente sottintende la stessa cosa in Buffet Titanik che, nel contesto delle osservazioni di Kiš sulla vita, la letteratura e la storia, potrebbe essere il racconto che libera un avvenimento dall’anonimità e gli conferisce una dimensione universale. Come sarebbe possibile rappresentare la morte di più di novemila ebrei sarajevesi? [v] La scelta di Andrić è il povero Hercika. Il nome di questa vittima di Stjepan Ković, il nome reale, che ci è ignoto, è inciso sul Monumento alle vittime del fascismo di Vrace [vi].

L’altro, quello immaginario, è inciso per sempre in questo racconto. L’autore, nel periodo del suo ultimo incarico diplomatico a Berlino [vii], ebbe occasione di incontrare il maestro del male, Adolf Hitler, così come nei primi anni venti, all’inizio della sua carriera diplomatica, presso la Santa Sede, era stato testimone a Roma della nascita del fascismo. Su questo lasciò degli scritti che lo annoverano fra i rari intellettuali che in Europa, fin dall’inizio, non solo intuirono, ma anche stabilirono la vera natura di quella peste umana.

 

Ivo Andrić. Buffet Titanik a cura di Božidar Stanišić.  Traduzione dal serbo: Alice Parmeggiani. Perosini editore, 2012 Zevio (Verona).

NOTA.  Il testo che precede è ripreso da:
http://www.balcanicaucaso.org/aree/Bosnia-Erzegovina/La-cravatta-di-zio-Stipo-129299/%28from%29/newsletter



[i]  Dopo le dimissioni dalla carica di ambasciatore del Regno di Jugoslavia a Berlino e il suo ritorno nella Belgrado occupata, dalla primavera del 1941 fino alla liberazione, Andrić si ritirò completamente dalla vita pubblica e culturale. In un piccolo appartamento lavorò ai suoi tre romanzi: Il ponte sulla Drina, La cronaca di Travnik e La signorina. Tuttavia, seguì attentamente le manifestazioni della vita in città e nel resto del paese smembrato da parte dei satelliti del Terzo Reich. Ne sono testimonianza alcuni suoi racconti, fra i quali per intensità narrativa si distinguono Buffet Titanik e Zeko, nonché diversi scritti su scrittori e intellettuali ebrei e sulle sofferenze dei sefarditi e degli ashkenaziti in Bosnia durante la guerra

[ii]  Sorprese loro stesse all’inizio dalla violenza del male che colpiva gli ebrei, i serbi, i rom e i comunisti di tutte le etnie, le comunità islamiche delle maggiori città della Bosnia Erzegovina (Sarajevo, Mostar, Tuzla, Prijedor, Bijeljina…) nel 1941 attraverso i loro capi pubblicarono proteste scritte contro la politica assassina e predatoria dello Stato Indipendente Croato e condannarono la partecipazione di parte della popolazione musulmana al movimento ustascia, per il quale non diedero altra definizione che ‘canaglie e delinquenti’. Pavelić e gli altri criminali del regime ustascia considerarono tali risoluzioni ‘una coltellata alla schiena’

[iii]  Quel silenzio manca nell’ottimo film TV del 1979 del regista Emir Kusturica (1954), basato su questo racconto di Andrić (premio per la miglior regia al Festival nazionale della Televisione, Portoroz 1980). Nell’interpretazione di Jan Beran e Emir Kusturica, sceneggiatori di questo film, Hercika dialoga con un rabbino di Sarajevo, e alla fine l’oste di Andrić rimane senza una risposta chiara sul male nel mondo e nell’individuo. Non è l’unica libertà che gli sceneggiatori hanno preso nell’interpretazione di questo racconto. Ce ne sono anche alcune che contribuiscono alla coesione dell’azione del film. Così, per esempio, l’ambiente di Banja Luka in cui è cresciuto Stjepan Ković è sostituito da quello di Sarajevo e Agata, la compagna di Hercika, diventa l’amante anche del futuro ustascia

[iv] Con questo breve frammento Andrić ci indirizza anche verso la problematica del millenario rapporto dei cristiani cattolici (ma anche di quelli ortodossi nel mosaico balcanico di popoli e fedi) e della loro Chiesa nei confronti degli ebrei, in Bosnia e in tutta l’Europa. In Andrić non ci sono dettagli cosiddetti secondari, e così anche questo frammento stimola il lettore all’analisi di tutta la lunga storia del trattamento degli ebrei da parte dei cristiani. Anche in Bosnia, come in tutto il mondo cattolico, fino all’avvento di papa Giovanni XXIII e alle risoluzioni dell’ultimo Concilio, le parole Oremus et pro perfidis Judaeis erano parte integrante della preghiera del Venerdì Santo

[v] Nel 1941, uno ogni quattro abitanti del nucleo urbano di Sarajevo era ebreo. In maggioranza erano sefarditi, insediatisi in città da alcuni secoli, avendo trovato rifugio sotto la protezione dell’Impero Ottomano dopo la cacciata dalla penisola iberica alla fine del XV secolo. Gli ashkenaziti arrivarono in Bosnia dopo l’occupazione austroungarica nel 1878.

[vi] Un quartiere di Sarajevo che, durante l’assedio serbo 1992-95 alla città, soffrì in modo particolare. Il Monumento fu danneggiato, come l’antico cimitero ebraico, sul quale Andrić lasciò un’eccezionale testimonianza letteraria.

[vii] Andrić, nuovo ambasciatore del Regno di Jugoslavia, arrivò a Berlino nella primavera del 1939, ossia alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Fu ricevuto ufficialmente da Hitler il 19 aprile 1939. Nel corso del suo relativamente breve servizio nella capitale del Terzo Reich, Andrić ebbe modo di verificare la mostruosità dell’attuazione nazista del nuovo ordine europeo. Nell’autunno 1939 investì tutti i suoi sforzi diplomatici e umani per consentire la liberazione di 183 docenti dell’Università Jagellonica di Cracovia, che la Gestapo aveva arrestato con l’intenzione di annientare l’élite intellettuale polacca. In quell’impresa ebbe il sostegno dell’ambasciatore italiano e di quello turco. Il tentativo ebbe un successo limitato: nel febbraio1940 i nazisti liberarono i docenti con più di quarant’anni, in tutto 101, e deportarono gli altri nei campi di concentramento.

27 Gennaio 2013Permalink

25 gennaio 2013 – Un po’ di sintesi e un manifesto

Il sonno della ragione genera mostri

‘Il sonno della ragione genera mostri’, così nel 1797 Francisco Goya intitolava una sua acquaforte e tanto gli abbiamo dato ragione che potremmo anche sospendere  questa azione di postuma solidarietà. Poiché parecchi tentativi di inserirmi in un collettivo ragionare sono falliti assicuro almeno a me stessa uno spazio per far sintesi delle notizie che ho raccolto e che mi hanno costretta a qualche non occasionale riflessione.

La scuola dell’obbligo senza permesso di soggiorno?

Così raccontava la lettera g) del comma 22 della legge 94/2009 (nota come ‘pacchetto sicurezza’) e, per la cronaca, l’eccezione relativa alla scuola dell’obbligo era stata frutto di un emendamento presentato dalla on. Mussolini, ispirata dal presidente della Camera on. Fini. Questa eccezione risolveva solo un frammento del problema (più a discutibile onore dei proponenti che a garanzia dei soggetti interessati) perché restavano del tutto scoperti gli asili nido, le scuole dell’infanzia e, posto che fosse possibile l’accesso alla scuola superiore, c’era il rischio che al compimento dei 18 anni lo studente non potesse essere ammesso all’esame di maturità. Problemi emersi, fallimenti, circolari occasionali … un caos e una perdita di tempo dovuti a una pessima modalità di legiferare.

Ora anche quel frammento crolla perché

1) chi iscrive i figli alla scuola pubblica, con le modalità previste per la metodologia elettronica, anche se non possiede un PC – e la scuola stessa lo soccorre- deve però disporre di un indirizzo e-mail.
Che se ne fa uno senza computer di un indirizzo di posta elettronica? Credo siamo nello spazio culturale della regina Maria Antonietta: “Se non hanno pane mangino brioches”;

2) Nella documentazione da proporre per l’iscrizione alla scuola ci deve essere il codice fiscale di cui, chi non ha il permesso di soggiorno, non dispone. Fantastico!
Adesso capisco perché un destino ironico e amaro ha fatto sì che tutto questo pastrocchio facesse capo a un comma 22! Joseph Heller era stato profeta e oggi potrebbe riscrivere il suo cerchio indistruttibile così:
‘Chi non ha il permesso di soggiorno può iscrivere i propri figli alla scuola dell’obbligo
ma chi iscrive i propri figli alla scuola dell’obbligo deve avere il permesso di soggiorno’.

Il Manifesto dell’Associazione Studi Giuridici Immigrazione (ASGI) per riformare la legislazione sull’immigrazione

Il Manifesto si sostanzia in dieci punti che non trascrivo. Sono indicazioni preziose e chi vorrà potrà andarsele a leggere nel sito che ho collegato all’acronimo ASGI, sperando che chi lo praticherà non si fermi all’enunciazione ma entri, secondo le proprie competenze e interessi, nelle singole voci.
E’ un’operazione che ho fatto anch’io e mi limito a un punto che è strettamente connesso a quello che scrivo inutilmente da anni:
Ricopio dal paragrafo 3 del Manifesto ASGI:

I minori stranieri devono essere trattati, in primo luogo, come minori.
La
Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, ratificata dall’Italia con legge n. 176/91, stabilisce che i diritti da essa sanciti devono essere riconosciuti a tutti i minori che rientrano nella giurisdizione dello Stato, senza alcuna discriminazione, indipendentemente dalla loro nazionalità, regolarità del soggiorno o apolidia. Ai sensi della Convenzione, inoltre, in tutte le decisioni che riguardano i minori, il superiore interesse del minore deve essere una considerazione preminente. Tali principi sono già previsti nel testo unico delle leggi sull’immigrazione, ma spesso, nella prassi, sono disapplicati o non attuati.
Per garantire i diritti dei minori stranieri è dunque necessario che:
1) si affermi inequivocabilmente che ai minori stranieri presenti sul territorio nazionale, indipendentemente dal possesso di un permesso di soggiorno da parte loro o dei genitori, sono riconosciuti in via generale pari diritti rispetto ai minori italiani, inclusi i diritti inerenti gli atti di stato civile, il diritto all’iscrizione al servizio sanitario nazionale, l’accesso agli interventi di sostegno al nucleo familiare finalizzati a consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia, il diritto all’istruzione e alla formazione fino al conseguimento del titolo finale del corso iniziato durante la minore età;

Come rendere operativi i principi del manifesto ASGI?

Per me gli ostacoli sono due e mi limito ad enunciarli

1) nei parlamentari, senatori o deputati che siano, o aspiranti tali, l’incapacità a considerare i diritti fondamentali al di fuori di una logica di voto di scambio e la determinazione a dare risposte occasionali con un occhio di riguardo alle lobbies e quindi al numero e alla visibilità di chi si rivolge loro con qualche proposta. Di recente una persona, che è ben emersa alle primarie e quindi si proporrà al nostro acritico voto (condizionato dalla scelta del partito a norma di legge suina) mi ha detto: ‘ma a queste cose penseremo in un futuro con una nuova legge sull’immigrazione!” E io parlavo di registrazione anagrafica! Possibile che non riescano a capire che i diritti fondamentali non sono beneficenza, per quanto nobile, ma garanzie universali?!

2) nella società civile, l’arroccamento attorno al proprio ‘particulare’, nobile o ignobile che sia (provate a rileggere Guicciardini!) che riduce il rapporto politico se non a un voto di scambio alle sue premesse e l’incapacità –per paura di perdere simpatie calate dall’alto – a farsi propositivi. Non diverso danno viene da coloro che limitano la propria partecipazione a un urlo contro, tanto appagante se collettivamente esercitato, quanto inutile.

C’è il rischio che i principi ASGI, sventolati come bandiere, vengano vanificati nel loro significato e non si sostanzino in leggi di cui abbiamo bisogno. Che fare?

La prima cosa che faccio io

Trascrivo l’art. 1 della legge in vigore sulla cittadinanza e l’art. 1 della proposta di legge a iniziativa popolare con cui dovrebbe confrontarsi anche il futuro parlamento (se mai lo farà).

Legge n. 91/1992   Art. 1

1. È cittadino per nascita:
a) il figlio di padre o di madre cittadini;
b) chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono.
2. È considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza
.

Proposta di legge a iniziativa popolare:

Art. 1. (Nascita)

1. Al comma 1 dell’articolo 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, sono aggiunte, in fine, le seguenti lettere:
b-bis).Chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia legalmente soggiornante in Italia da almeno un anno.”

“b-ter). Chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia nato in Italia.”

Ultima domanda:
perché quando pongo il problema della registrazione anagrafica dei sans papier molti mi dicono che l’accoglimento della proposta  di legge a iniziativa popolare risolverà il problema?
Pensano di tranquillizzarmi?
Signori miei, essere vecchie non significa essere sceme e comunque non fa perdere il diritto di voto, anche se vale uno e non si unisce a lobbies da sondaggio.

25 Gennaio 2013Permalink

16 gennaio 2013 – Le notizie si affollano

Minori, pediatri e permessi di soggiorno.

In due precedenti articoli avevo scritto del caso di una bambina che, priva del permesso di soggiorno, non otteneva l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale per poter fruire delle cure di un pediatra..
Quella notizia si è intrecciata con la ‘promessa’, da parte del Ministero della Sanità, alla Società Italiana di Medicina delle Migrazioni di un documento che rendesse obbligatoria l’iscrizione per i minori al Servizio Sanitario Nazionale. Il documento si è poi sostanziato in una circolare del Ministero della Sanità che ha reso possibile la regolare iscrizione al SSN della piccola cui in prima battuta era stato negato (entrambi i passaggi sono reperibili nel mio blog il 3 e il 6 gennaio- Questo dimostra tra l’altro l’importanza della circolazione corretta e puntuale delle informazioni che non vengano ridotte a facile attività di tipo deprecatorio).
E’ necessaria comunque una precisazione: il permesso di soggiorno assicurato ha la validità di tre mesi, secondo una prassi consolidata e identica per cittadini italiani e stranieri. La scelta ha aspetti ovvii: la mancanza del permesso di soggiorno è facilmente collegabile alla temporaneità. se non alla precarietà, della residenza e cerca di corrispondere a questa situazione. Mi assicurano comunque che i tre mesi, almeno per esigenze di tipo pediatrico,  sono rinnovabili con procedura praticamente automatica.
Resta però una osservazione obbligata: considerato che la legge di ratifica della Convenzione di New York sui diritti del minore (legge n. 176 /1991) identifica l’attenzione ai minori come un valore prioritario e incondizionato, senza distinzioni di sesso, di religione ecc. ecc., rispecchiando perfettamente l’art. 3 della Costituzione, è evidente che la legislazione italiana necessita di un aggiornamento radicale e rapido.
La gimcana virtuosa fra circolari e direttive fa onore ai professionisti che vi si dedicano con competenza e rispetto dei soggetti di cui si occupano ma non a chi, politicamente, se ne disinteressa o peggio.
A questo punto non posso non esprimere la mia dissennata speranza che il prossimo parlamento legiferi e trovi una soluzione anche alla norma che vuole neonati del tutto inesistenti sempre per ragioni burocratiche. Ne ho parlato tante volte nel mio blog che non mi ripeto.
Se i candidati alle prossime elezioni hanno una qualche consuetudine alla lettura (cosa di cui dubito) affido loro la notizia e la mia – temo improbabile- speranza.

Il fulmine che attraversa i pastrocchi e arriva alla sintesi

Due giorni fa scrivevo della bambina affidata alla mamma e della canea scatenata attorno alla sentenza della Corte di Cassazione che ha affermato la priorità dei diritti del minore su ogni altra considerazione. Ho già inserito il link e non mi ripeto, ma voglio segnalare la pubblicazione della sentenza nel sito dell’Asgi. limitandomi a trascrivere la sintesi che ne propone la stessa associazione.

La Corte di Cassazione, I sez. civile, con la sentenza n. 601/2013 depositata l’11 gennaio 2013, ha respinto il ricorso proposto da un padre avverso la sentenza della Corte di Appello di Brescia che aveva confermato il decreto del Tribunale dei Minorenni con il quale veniva disposto l’affidamento esclusivo del figlio naturale alla madre, con diritto di visita del padre regolato e vigilato dai servizi sociali territoriali.

Il padre aveva sostenuto che il provvedimento andava censurato perché, tra l’altro, il nucleo familiare della madre del bambino era composto da due donne, legate tra di loro da una relazione lesbica e pertanto, non sarebbe stato adeguatamente motivato se tale fatto fosse idoneo, sotto il profilo educativo, ad assicurare l’equilibrato sviluppo del minore in relazione al suo diritto di “essere educato nell’ambito di una famiglia quale società naturale fondata sul matrimonio”. Ulteriormente, il ricorrente sosteneva che l’affido del minore alla madre convivente in una relazione omosessuale sarebbe di pregiudizio al diritto fondamentale di entrambi i genitori di provvedere all’educazione dei figli secondo le loro convinzioni religiose e culturali, non potendosi prescindere dal contesto religioso e culturale del padre, di religione musulmana.

I giudici della Cassazione hanno respinto il ricorso sostenendo che considerare dannoso di per sé all’equilibrato sviluppo del minore il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale, a prescindere da dati di esperienza riferibili alla situazione concreta, equivarrebbe a sancire un mero pregiudizio discriminatorio, così come i principi costituzionali del diritto di entrambi i genitori ad educare i propri figli secondo le proprie convinzioni educative e religiose non possono essere fatti valere in astratto, in maniera generica e non concludente, ma debbono essere calati nella realtà concreta dei rapporti relazionali genitori-figli, secondo il principio della valutazione del superiore interesse del minore.

Pertanto, la Cassazione ricorda che non si può avallare il pregiudizio nei confronti delle coppie omosessuali, secondo il quale quel contesto familiare sarebbe di per sé inidoneo per lo sviluppo equilibrato di un minore, senza che nella situazione concreta venissero invece specificate quali fossero le paventate ripercussioni negative per il bambino.

A tale riguardo, la Cassazione rileva che nel caso in specie, la Corte di Appello aveva correttamente valutato negativamente il comportamento del padre, il quale aveva esercitato violenza fisica nei confronti della convivente della madre del bambino, in presenza di quest’ultimo, con conseguente disagio manifestato dal minore; fatto di cui doveva tenersi in adeguato conto nell’interesse del minore essendo la convivente della madre comunque una persona familiare al bambino, mentre la dedotta difficoltà del ricorrente di accettare, date la sua origine e formazione culturale, il contesto familiare in cui suo figlio cresceva, non poteva essere considerata circostanza alleviante la gravità della sua condotta.

La sentenza della Cassazione è dunque importante perché sancisce il fondamentale principio del divieto di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale nell’ambito della vita privata e familiare, ma anche perché fornisce alcune sommarie ma importanti considerazioni sul limite, anche sotto il profilo giudiziale, che può trovare il riconoscimento della diversità culturale e religiosa nel momento in cui entrano in gioco i principi e i valori dell’autonomia e responsabilità personale e del superiore interesse del minore.

Per quanto concerne il primo punto, la sentenza della Cassazione appare pienamente conforme ed in linea con gli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’Uomo che si è espressa sul divieto di discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale, in relazione anche a questioni di adozione e affido dei minori. Ad esempio, nella causa E.B. c. Francia (sentenza 22 gennaio 2008 n. 43546/02), la domanda di adozione della ricorrente era stata respinta in ragione del fatto che nella sua famiglia non era presente una figura maschile. Il diritto nazionale francese permetteva le adozioni da pater di genitori single e la Corte di Strasburgo ha constatato che la decisione delle autorità era principalmente basata sul fatto che la ricorrente aveva una relazione e conviveva con una donna. Di conseguenza, la Corte di Strasburgo ha dichiarato che si trattava di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale vietata dall’art. 14 CEDU in collegamento con l’art. 8 (protezione vita privata e familiare).                                                      a cura di Walter Citti

Credo sia importante leggere l’intera sentenza anche se ne esce con una sensazione di amarezza: c’era bisogno che si sventolasse questa povera bambina come una bandiere, da una parte contro il ‘matrimonio’ di omossessuali, dall’altra come argomento a favore?

Un comune si corregge.

Sempre dal sito ASGI in data 15 gennaio:

A seguito della segnalazione del Servizio antidiscriminazioni dell’ASGI, l’Assessore all’Istruzione del Comune di Pordenone ha annunciato che verrà modificato il Regolamento comunale per l’assegnazione di borse di studio per studenti universitari meritevoli appartenenti a famiglie in condizione di bisogno economico dal lascito testamentario “Mior-Brussa”, alle quali possono attualmente concorrere solo gli studenti di cittadinanza italiana residenti nel comune di Pordenone da almeno cinque anni.

L’Assessore all’Istruzione, Ines Flavia Rubino, ha annunciato che i requisiti di cittadinanza italiana e di anzianità di residenza verranno tolti a partire dal prossimo bando che verrà indetto nel settembre 2013, consentendo la partecipazione a tutti gli studenti in possesso dei requisiti di merito e di bisogno, residenti nel Comune di Pordenone e a prescindere dalla loro nazionalità.

L’Assessore ha precisato che non vi era un intenzione dell’Amministrazione di discriminare gli studenti stranieri, ma che i requisiti ‘discriminatori’ erano stati previsti originariamente sulla base del contenuto del lascito testamentario. L’Amministrazione comunale ha condiviso le osservazioni mosse dall’ASGI che una pubblica amministrazione non può ritenersi vincolata da un negozio giuridico privato a mettere in atto una discriminazione contraria ai principi costituzionali fondamentali.

L’ASGI esprime apprezzamento per la decisione dell’Amministrazione comunale di Pordenone.

16 Gennaio 2013Permalink